lunedì, ottobre 31, 2011

ASPO-Italia 5: concluso il convegno

Si è concluso il convegno organizzato il 28 Ottobre a Firenze da ASPO-Italia in collaborazione con Climalteranti. Vedremo di relazionare nei dettagli con calma, nel frattempo qualche foto senza pretese di una cronaca completa.

Ian Johnson, segretario generale del Club di Roma, apre i lavori con il suo intervento. A mio parere è stato nettamente il più interessante di tutto il convegno.

Toufic El Asmar, segretario di ASPO-Italia da la sua presentazione sul problema alimentare.

Questo è Stefano Caserini a rappresentare il gruppo "Climalteranti" nella sessione del mattino.

Ed ecco Luca Mercalli che non sta facendo il Karaoke, come potrebbe sembrare, ma sta dando la sua presentazione. Lo strumento sulla sinistra è del gruppo "Cambiamo" che ha fatto le pause musicali nel pomeriggio.

Il concetto di essere delle "Cassandre" si diffonde; qui nell'interpretazione di Pietro Cambi.

Una delle pause musicali del gruppo "Cambiamo".

Per essere un convegno fatto in un giorno di lavoro, ha attirato un bel gruppo di persone.

Pausa pranzo al ristorante "Nerbone" nel cuore del mercato di San Lorenzo. Da sinistra a destra, si riconoscono Cristiano Bottone, Sergio Paderi, Terenzio Longobardi, Massimiliano Rupalti (dietro Massimiliano, si intravede una sua amica).

La pausa pranzo di Fabio Biagini, al mitico baracchino del lampredotto del mercato di San Lorenzo.

Alcuni dei partecipanti dell'assemblea dei soci ASPO-Italia. Da destra a sinistra, Gianni Comoretto, Pietro Cambi, Francesco Aliprandi, Noemi Brogialdi, Andrea Fanelli e Lou del Bello. Dietro Andrea, si intravede Mirco Rossi.

La nuova triade dirigente di ASPO-Italia, da sinistra a destra: Toufic El Asmar (Vice-presidente), Luca Pardi (presidente) e Mauro Icardi (Segretario).

Per finire, questo oggetto era in un corridoio vicino a dove si teneva la conferenza. Non so se lo si debba interpretare come un partecipante che è rimasto scioccato dal tono catastrofista di certi interventi.

giovedì, ottobre 27, 2011

L’ecologismo del ventunesimo secolo

Qualche anno fa scrissi un articolo, in cui preconizzavo il declino dell’ambientalismo, attribuendone le cause alla sostanziale accettazione dell’attuale modello economico, fondata sull’illusione che lo sviluppo della tecnologia “verde” potesse renderlo ecologicamente sostenibile.
Così, quando nella cassetta della posta ho trovato il documento di Legambiente in discussione al prossimo Congresso Nazionale di Bari, l’ho letto con attenzione, sperando che la crisi economica in cui siamo drammaticamente immersi da qualche anno, fosse servita a mutare questo orientamento culturale.

Purtroppo, ho dovuto prendere atto di nessun mutamento di linea, a dimostrazione della evidente incapacità di comprendere la natura e le motivazioni della crisi e, conseguentemente, di individuare strategie e obiettivi efficaci per affrontarla. Il documento, infarcito di citazioni colte e frasi ad effetto a volte un po’ stucchevoli, sorvola rapidamente all’inizio sulla crisi economica globale che stiamo vivendo, senza affrontare minimamente, forse per il timore di risposte imbarazzanti, l’analisi delle cause che l’hanno determinata. Poi, in maniera politicamente corretta, prosegue nella consueta linea di ottimismo tecnologico sintetizzata nel riferimento al documento della Commissione per lo sviluppo sostenibile dell’Onu, che sottolinea la necessità di procedere a un “disaccoppiamento” del tasso di crescita dal tasso di uso delle risorse, dissociando la crescita economica dal consumo delle risorse naturali, aumentando l’efficienza dell’uso delle medesime.

Legambiente (ma in genere quasi tutto il mondo ambientalista italiano), continua cioè a non porsi i problemi irrisolvibili della progressiva “saturazione dell’efficienza”, intrinseca nei limiti termodinamici di ogni tecnologia e della “distruzione dell’efficienza” causata dalla continua crescita economica a livello globale.
Sono quindi giunto alla conclusione che la caduta di tutti i consolidati paradigmi dell’attuale cultura economica trascinerà inevitabilmente con sè anche questo ambientalismo un po’ manieristico e di facciata.
Nei prossimi anni dovremo lavorare affinché dalle sue ceneri rinasca un nuovo – vecchio ambientalismo più adeguato ai tempi tormentati che ci attendono, che assuma alcuni principi ispiratori fondamentali:

1) La causa della crisi economica e sociale in atto è la crescita. Il sistema è scoppiato quando ha cercato di forzare i limiti intrinseci nel meccanismo della crescita, dovuti alla saturazione di produzione e consumi nel mondo occidentale, attraverso l’espansione incontrollata dell’economia finanziaria e di ignorare i limiti naturali connessi al progressivo esaurimento delle risorse fossili.
2) Le conseguenze della crisi, in parte già visibili, saranno la fine dell'economia fondata sulla crescita, almeno nelle forme che abbiamo vissuto nell’ultimo secolo.
3) Per fare fronte a questi stravolgimenti sul piano economico e dell’organizzazione sociale, saranno necessarie una profonda riforma dei meccanismi connessi alla spesa pubblica nel senso dell’efficienza e politiche dei redditi fondate sulla redistribuzione.
4) L’analisi strategica di riferimento per contrastare la crisi tornerà ad essere quella contenuta nel tanto vituperato quanto profetico “I limiti dello sviluppo” del Club di Roma.
5) La critica al consumismo e la promozione di comportamenti di vita più sobri saranno i valori morali da promuovere verso l’opinione pubblica.
6) La profonda e radicale revisione del modello dominante di mobilità fondato sull’uso del mezzo privato, dovrà diventare una priorità delle politiche economiche.
7) La riconversione produttiva della società, attraverso un parziale ridimensionamento dell’industria a favore dell’agricoltura e delle attività di trasformazione ad essa collegata, sarà la prospettiva strategica delle politiche del lavoro nei prossimi vent’anni.
8) La globalizzazione economica dovrà lasciare il posto a una maggiore integrazione delle economie locali su scala nazionale e tra paesi confinanti.
9) Le politiche demografiche dovranno essere sempre più orientate alla limitazione delle nascite.
10) Infine, e solo infine, rinnovabili ed efficienza dovranno attenuare le conseguenze energetiche del declino delle risorse non rinnovabili.

domenica, ottobre 23, 2011

Rapporto sulla ricchezza globale 2011

Qualche mese fa ho scritto un articolo, dal titolo “Povera Italia”, nel quale mettevo in evidenza come il nostro paese, un po’ a sorpresa, occupasse uno dei primi posti al mondo per quanto riguarda un parametro economico, la ricchezza netta, che misura la somma delle attività reali e finanziarie al netto dei debiti, in altre parole il patrimonio mobiliare e immobiliare in possesso degli italiani.

Conviene riprendere l’argomento in occasione della presentazione dell’ultimo Rapporto sulla ricchezza globale 2011 predisposto da Credit Suisse, disponibile sul sito di questa impresa globale nel mercato dei servizi finanziari. E’ uno studio molto interessante che fornisce i dati più aggiornati sulla ricchezza mondiale, sulla sua distribuzione geografica e sulla composizione interna. Potete leggere qui un sintetico ma efficace commento ai contenuti del Rapporto.

Le conclusioni, per quanto riguarda il nostro paese, non si discostano molto da quanto ho già scritto in passato. Ho cercato di sintetizzarle in alcuni grafici che ho elaborato personalmente a partire dai dati disponibili o che ho estratto direttamente dal Rapporto.

Il primo grafico rappresenta la ricchezza netta procapite nei primi trenta paesi al mondo. Possiamo vedere che l’Italia si colloca al 9° posto a livello globale e al 5° posto in Europa (se si esclude la Svizzera che è un paese molto particolare da questo punto di vista), davanti a colossi economici come Stati Uniti, Canada, Giappone, Germania, Regno Unito.

Il secondo grafico rappresenta l’andamento di questo parametro negli ultimi dieci anni, che sembrerebbe disegnare un picco negli ultimi quattro anni, in analogia con altri parametri economici ed energetici che abbiamo esaminato più volte su questo blog.

La tabella allegata, mette a confronto alcuni paesi dal punto di vista di un parametro, l’indice di Gini, che misura la concentrazione della ricchezza nelle fasce della popolazione. Anche in questo caso viene confermato, anzi si rafforza quanto segnalato nel mio precedente articolo, cioè una più equa distribuzione della ricchezza in Italia rispetto a molti altri paesi economicamente sviluppati.

L’ultimo grafico ci fa vedere come si suddivide la torta dei possessori individuali di una ricchezza superiore ai 100.000 dollari. In questa classifica, l’Italia si colloca al 3° posto al mondo, con l’8% della totalità di questi facoltosi detentori di ricchezza.

Infine, è opportuno e utile segnalare il valore assoluto della ricchezza netta italiana, 12.700 miliardi di dollari, pari a più di 9100 miliardi di euro, cioè quasi cinque volte il colossale debito pubblico dello Stato il cui rischio di insolvenza pende come una spada di Damocle sul nostro paese e sullo Stato Sociale.

L’insieme delle considerazioni precedenti ci induce a esporre alcune conclusioni politiche connesse a temi di stretta attualità:

1) Le risorse per abbattere drasticamente il debito pubblico italiano sono disponibili e si possono prelevare dalle enormi ricchezze private accumulate nel nostro paese, grazie all’alacrità e allo spirito di iniziativa di molti nostri concittadini, ma anche alla diffusa infedeltà fiscale che li contraddistingue e che sottrae grandi flussi finanziari alle casse dello Stato, alimentando la spirale perversa del debito pubblico.
2) Gli strumenti per rendere disponibili queste risorse sono, a breve termine, un prelievo patrimoniale sulla fasce più ricche della popolazione e, a livello strategico, una lotta inflessibile all’evasione fiscale (come ho scritto qui).
3) Gli organi di informazione, invece di abbandonarsi quotidianamente al piagnisteo nazionale sulla povertà in aumento, sulla disoccupazione dilagante e sulla precarietà dell’esistenza, farebbero bene invece a rendere pubblici e divulgare anche le informazioni e i rapporti che qui abbiamo illustrato, ma che invece continuano a rimanere sconosciuti ai più.
4) Gli "indignati" dovrebbero capire che proposte come quelle della cancellazione del debito, oltre ad essere velleitarie, controproducenti e sostanzialmente inapplicabili, fanno inconsapevolmente il gioco delle ricchezze private accumulate a scapito di quella collettiva.
5) Le forze politiche dovrebbero finalmente realizzare che, finita l’epoca della continua espansione della spesa pubblica (spesso improduttiva) a sostegno della crescita economica, le uniche politiche economiche sensate nell’attuale contingenza storica sono quelle finalizzate a una redistribuzione dei redditi tra le fasce sociali.

giovedì, ottobre 20, 2011

Rinnovabili: Terna schiera le sue batterie

Notizie molto interessanti sul fronte della produzione di energia elettrica da rinnovabili giungono dall’ultimo rapporto mensile di settembre 2011, pubblicato da Terna S.p.A., la società che ha la proprietà e la gestione della rete di trasmissione nel nostro paese. Nei primi nove mesi dell’anno, l’energia fotovoltaica netta prodotta è stata pari a 6776 GWh, con una crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente di ben 356,6%. La produzione fotovoltaica ha addirittura superato quella eolica, che si attesta nello stesso periodo a 6501 GWh (+6%). Si tratta di una crescita che avevamo già annunciato e spiegato in articoli precedenti, che comunque continua a stupire per la sua impetuosità. Complessivamente, eolico e fotovoltaico contribuiscono oggi per circa il 5,3% alla richiesta di energia elettrica italiana (Consumi finali + perdite di rete). Quest’ultima manifesta una leggera crescita rispetto all’anno precedente, non sufficiente però a recuperare del tutto il crollo dei consumi verificatisi nel 2009 a seguito della crisi economica.

La nave delle rinnovabili sembra quindi procedere spedita con il vento in poppa e il sole in fronte. Ma, continuando nella metafora, il mare energetico finora calmo e tranquillo, rischia presto di mutarsi in tempesta, a causa dell’ostacolo inevitabile costituito dalla natura intermittente delle fonti rinnovabili e dalla difficoltà della rete elettrica di assorbirne la produzione oltre certi limiti di potenza. In un recente ed apprezzato articolo, Domenico Coiante ha analizzato dal punto di vista tecnico la natura e la dimensione di questo limite.

Che non si tratti di un limite solo teorico, lo dimostra in questi giorni anche il duro scontro in corso tra la stessa Terna S.p.A. e i grandi produttori di energia elettrica italiani. In questo articolo di Repubblica è sintetizzato l’oggetto del contendere: Terna vorrebbe realizzare 130 MW di batterie, principalmente nelle regioni meridionali, per accumulare nelle ore di minore richiesta l’energia rinnovabile, da utilizzare nelle ore di punta. I produttori ribattono che sarebbe più economico investire nel potenziamento e integrazione delle reti. Ma Terna ribatte che ogni euro investito in accumulo ne produce due di ritorno economico. La proposta di Terna è descritta in questo documento.

Il giorno successivo, sempre sullo stesso giornale, interviene per Terna Gianni Vittorio Armani, con alcune precisazioni che vale la pena di riportare integralmente:
“Per Terna realizzare batterie non ha a che fare con logiche di business; Terna deve rispettare le leggi della Repubblica… Il primo scopo delle batterie è garantire la sicurezza per evitare blackout e crisi elettriche, che possono derivare dal non corretto e ottimale utilizzo dei crescenti impianti rinnovabili…. Solo le batterie garantirebbero un grande risparmio economico… Terna ha il mandato di ridurre i costi dell’energia che in Italia sono i più alti della media europea… quindi sembra giustificato anche un diverso sistema di remunerazione, come il pay as bid, per ridurre i costi ed evitare rendite di posizione ingiustificate… L’obiettivo dei produttori è di non far produrre le rinnovabili per far funzionare invece sempre e solo i loro impianti termoelettrici. Si ricorda che quando gli impianti rinnovabili non producono, il sistema comunque li remunera in bolletta. Se passasse la loro logica, questa sì di business e di concorrenza non leale, gli italiani pagherebbero quindi due volte: la prima per avere rinnovabili ferme o poco funzionanti, la seconda per remunerare di più gli impianti termoelettrici… E meno male che Armani aveva premesso di non volere polemizzare.

La spinosa e cruciale faccenda merita alcuni commenti:
1) Non c’è dubbio che la realizzazione di sistemi di accumulo servirebbe ad impedire o limitare lo “spreco” di energia rinnovabile, che già ora avviene a seguito delle interruzioni di fornitura operate da Terna su molti impianti eolici per modularne la potenza e garantire la stabilità della rete. Inoltre, l'energia eolica non immessa in rete viene comunque remunerata. Ne ho scritto tempo fa in due articoli, qui e qui.
2) Gli interventi di potenziamento e connessione delle reti elettriche, pur essendo necessari, non sono in antitesi con la realizzazione di sistemi di accumulo. Terna ha già investito e programmato interventi importanti sulla rete.
3) E’ probabile che, come ha scritto Francesco Meneguzzo in questo articolo, i grandi produttori siano danneggiati economicamente dalla concorrenza delle rinnovabili nella produzione “di punta”, ma è anche vero che la necessità di mantenere una quota di “riserva” in alcune centrali a ciclo combinato per rispondere a improvvise fluttuazioni di potenza rinnovabile, rappresenta un costo che il sistema è costretto a remunerare attraverso il meccanismo del prezzo marginale (corrispondente al prezzo più alto offerto dai vari produttori in un determinato momento), alternativo al pay as bid proposto da Terna.
4) Il sistema di accumulo a grande scala con batterie appare scarsamente conveniente sul piano economico. Quindi, l’espansione delle nuove rinnovabili verso quote di produzione nazionale paragonabili a quelle termoelettriche, richiede la sperimentazione di altri sistemi di accumulo, come l’idrogeno.
5) La generazione distribuita del solare fotovoltaico, attualmente privilegiata dal sistema di incentivazione nazionale, non si adatta molto bene a un modello di produzione integrato con sistemi di accumulo.

Concludendo queste brevi considerazioni, la risoluzione del problema dell’intermittenza delle rinnovabili è un problema talmente strategico che richiederebbe un ampio dibattito nazionale e internazionale, anche fuori dell’ambito specialistico in cui è attualmente confinato.

domenica, ottobre 16, 2011

Quinto Convegno ASPO-Italia


Quinto convegno nazionale ASPO-Italia

Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio
in collaborazione con Climalteranti

Venerdì 28 ottobre 2011
Ore 9:00 – 19:00

Cassandra nel XXI secolo

Clima, energia e cibo: fra informazione e disinformazione,
crescita della consapevolezza pubblica e politiche appropriate



Sala delle Feste - Palazzo Bastogi
Consiglio Regionale della Toscana
via Cavour, 18 - Firenze


Il convegno sarà trasmesso in diretta video sulla homepage del portale del Consiglio Regionale della Toscana
www.consiglio.regione.toscana.it


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PROGRAMMA
Apertura e Saluti 9.00-9.30

Ugo Bardi, Presidente di ASPO - Italia

Mauro Romanelli, Segretario Questore Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale

Saluti dei rappresentanti della Regione Toscana.

09:30 Ian Johnson, Segretario generale del Club di Roma. 40 years of Limits to growth.

10:15 Nicole Foss, ricercatrice economica coeditore del blog “The Automatic Earth”. Un secolo di sfide.

10:45 -11:15 Coffee Break

11:15 Toufic el Asmar, Segretario ASPO - Italia e consulente FAO. Climate Smart Agriculture.

11:45 Enrico Euli, Università di Cagliari. Informazione, apprendimento e pedagogia delle catastrofi.

12:15 Luca Mercalli, Presidente Società Meteorologica Italiana. Prepariamoci. Consapevolezza e ritardi nella percezione dei problemi ambientali.


Break pranzo 12:45-14:30

Nella sessione pomeridiana i seminari saranno intercalati da intermezzi teatral-musicali di circa 10 minuti.

14:30- 18:00 I grandi problemi dell'Umanità su web, carta stampata, editoria, radio e televisione.

Sylvie Coyaud, Giornalista. Il clima nella rete.

Pietro Cambi, Geologo esperto indipendente e blogger. Il picco nella rete. La benedizione di Cassandra.

Sergio Castellari, Centro Euro - Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici / Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. IPCC, climategate e i media.

Stefano Caserini, DIIAR Politecnico di Milano. Il Clima sulla carta stampata.

Mirco Rossi, Divulgatore indipendente. Energia e futuro – le opportunità del declino. Tre lenti per leggere meglio.

18:00-18:15 Conclusioni e chiusura

giovedì, ottobre 13, 2011

Consumismo energetico: confronti internazionali

Tra i molti commenti pervenuti al mio articolo di qualche giorno fa “Sono un antiamericano”, mi sono sembrati degni di particolare attenzione quelli che chiedevano di esplicitare analiticamente la mia critica al “consumismo” americano. In particolare, una lettrice, ne contestava la validità, rilevando analoghi comportamenti consumistici in Italia e in Europa. Si tratta di un errore di valutazione che spesso compie chi si limita a un’analisi qualitativa dei fenomeni. Se infatti è vero che l’intero occidente è responsabile della dissipazione delle risorse, una valutazione quantitativa del fenomeno mette in evidenza sensibili differenze.

Cominciamo con l’osservare il primo grafico in alto (tutti i grafici si possono ingrandire cliccandoci sopra), che ho costruito a partire dai dati dell’ultimo Rapporto 2010 di British Petroleum (BP) e dai dati sulla popolazione desunti dalle ultime stime ONU del 2010. Descrive i consumi di energia primaria (cioè la totalità dei consumi energetici) procapite, cioè per abitante, dei principali stati mondiali. Si può osservare che gli Stati Uniti hanno consumi procapite di 7,27 tep/ab, 2,56 volte superiori a quelli dell’Italia (2,84 tep/ab.), 1,87 volte superiori di quelli della Germania, 1,89 volte superiori di quelli della Francia e, mediamente, circa due volte (cioè il doppio) dei consumi procapite europei. In linea generale, gli Stati Uniti, con una popolazione di circa il 4,7% di quella mondiale, consumano 2285,70 Mtep, circa il 19% dell’energia primaria mondiale.

Passiamo ora al secondo grafico, che descrive i consumi di energia elettrica procapite dei vari Stati, desunti dai dati disponibili sul sito di Terna S.p.A.. Come sappiamo, l’energia elettrica rappresenta “solo” circa il 35% dell’energia primaria, ma si tratta di una fonte strategica, destinata ad aumentare la sua quota produttiva, molto correlata all’andamento dell’economia. Ebbene, anche in questo caso, la situazione è analoga a quella dell’energia primaria. Gli Stati Uniti hanno un consumo procapite di 11.748 kWh/ab., 2,36 volte superiore di quello italiano (4.970 kWh/ab.), rispettivamente 1,93 volte e 1,73 volte superiore di quello tedesco e francese. Complessivamente, gli Stati Uniti consumano circa il 21% dell’energia elettrica mondiale, con la popolazione che abbiamo detto prima.
Il terzo grafico, rappresenta i consumi procapite di petrolio desunti, per una platea di Stati più ridotta rispetto a quella precedente, dai dati disponibili sul sito dell’Unione Petrolifera. Anche qui, gli Stati Uniti presentano consumi specifici ad abitante (2,68 ton./ab.) circa il doppio dei paesi europei più popolosi e sviluppati. Per la precisione, 2,16 volte di più dell’Italia, 2,01 volte di più della Francia, 1,94 volte di più della Germania. I consumi totali di petrolio degli Stati Uniti sono circa il 22% di quelli mondiali.

Infine, mi sembra opportuno aggiungere anche un quarto grafico, che riporta i dati relativi ai consumi assoluti di energia primaria nei vari Stati. Esso evidenzia come paesi caratterizzati ancora da bassi consumi procapite, in forza del fattore demografico, presentino consumi assoluti molto elevati. E' il caso della Cina che negli ultimi anni ha addirittura superato al primo posto, in questa preoccupante classifica, gli Stati Uniti.

Concludendo, il consumo smodato di energia e, in particolare di petrolio (quest’ultimo dipendente prevalentemente dai trasporti), è un dato costitutivo del modello di sviluppo americano, molto di più dell’Italia e in genere dei paesi europei che, evidentemente per ragioni storiche e culturali, hanno assegnato una maggiore attenzione al contenimento dei consumi energetici.

lunedì, ottobre 10, 2011

Solare termico e fotovoltaico

Scritto da Domenico Coiante
La situazione
La Fig.1 in alto mostra un impianto domestico per il riscaldamento dell’acqua per usi sanitari con i collettori solari termici piani, collocati sulla terrazza.

La Fig.2 mostra il grafico dell’efficienza di conversione (dalla radiazione solare incidente all’energia termica del fluido convettore) tipica dei collettori solari termici piani sigillati in vetro, quelli usati nella maggioranza dei casi per riscaldare l’acqua per gli usi sanitari e/o per il riscaldamento domestico. Si può costatare come l’efficienza vari da circa l’80% fino al 25% in funzione della richiesta d’incremento termico dT del fluido.

Nella pratica, la richiesta termica si colloca intorno a dT = 40 °C, a cui corrisponde un’efficienza di conversione del collettore intorno al 50%. Considerando in cascata le perdite di calore lungo l’impianto, (serbatoio d’accumulo, scambiatore termico e tubazioni) stimabili intorno al 10%, il rendimento all’utilizzo finale s’abbassa intorno al 45%.
Questo valore, senza dubbio, può essere ritenuto molto buono, soprattutto in rapporto ai rendimenti delle altre opzioni solari. Inoltre, i collettori di elevata qualità, che si trovano oggi sul mercato, costano intorno ai 300 - 350 euro/m2, sono garantiti per 5 anni da difetti di fabbrica e la loro durata media è superiore ai 15 anni. Un serbatoio d’accumulo di capacità adeguata permette di superare facilmente gli effetti delle variazioni d’illuminazione nell’arco del giorno e garantisce la fornitura di acqua calda anche nel periodo notturno. A livello di un impianto per un’utenza domestica famigliare di 4 persone (circa 4 m2 di pannelli), il costo chiavi in mano si aggira in media intorno a 500 euro/m2.
Abbiamo, quindi a che fare con una tecnologia ormai matura che offre prodotti affidabili e a basso costo e che, in aggiunta, gode di varie forme d’incentivazione pubblica, stimabili per un totale medio intorno al 30% del costo d’impianto. Stanti queste interessanti caratteristiche, il mercato italiano ha dato negli anni recenti una notevole risposta positiva, illustrata nel grafico di Fig.3.

La capacità termica complessiva dei collettori solari è aumentata negli ultimi tre anni da 1120 MW termici (MWth) a 1870 MWth con una crescita media pari a 375 MWth all’anno.
La superficie totale dei collettori, che corrisponde alla potenza istallata, è 2,67 106 m2, avendo tenuto presente l’equivalenza generalmente usata dall’ESTIF: 1 m2 = circa 0,7 kWth di picco.
Il contributo annuale, apportato al bilancio energetico nazionale, si ricava considerando un’insolazione media italiana di 1500 kWh/m2 all’anno e l’efficienza di conversione dei collettori sopra indicata pari al 45%. Si ottiene una produzione energetica annua di 1,8 TWhth, cioè 0,155 Mtep (1 TWhth = 0,086 Mtep), cifra molto piccola in confronto al fabbisogno energetico di 180 Mtep del 2009 (ultimo dato noto del Bilancio Energetico Nazionale).

Confronto con il fotovoltaico
La Fig.4 a lato riporta sullo stesso grafico l’andamento negli ultimi 11 anni della crescita della potenza cumulata per i due casi: solare termico e fotovoltaico. Il dato del 2011 per il solare termico è stato ottenuto per estrapolazione lineare dei dati precedenti, mentre per il fotovoltaico la cifra indicata rappresenta il valore sperimentale parziale al 5 ottobre 2011 registrato dal Gestore Servizi Elettrici.

Si può notare immediatamente la grande differenza di comportamento nei due casi. I collettori solari termici hanno avuto una diffusione notevole a partire dai primi anni 2000, con una crescita pressoché lineare, mentre il fotovoltaico ha iniziato a farsi notare sulla scala del grafico solo dopo il 2006, ma con un tasso di sviluppo decisamente superiore, che in pochi anni ha assunto carattere esponenziale.
Una valutazione di confronto tra le due tecnologie può essere ottenuta considerando i rispettivi contributi energetici al bilancio energetico nazionale.
Assumiamo per difetto che nel 2011 la potenza fotovoltaica rimanga pari a quella istallata fino al 5 ottobre, cioè 11102 MWp. Nell’anno 2012 tale potenza produrrà 13,3 TWh di elettricità, avendo supposto una produttività degli impianti uguale alla media nazionale certificata dal GSE, cioè 1200 kWh/kWp.
Trattandosi di energia elettrica, si può applicare l’equivalenza: 1 TWh = 0,22 Mtep, con ciò indicando la quantità equivalente di combustibili fossili risparmiata dal sistema di generazione termoelettrico italiano (a cui è attribuita un’efficienza = 39%). In definitiva, il contributo al bilancio energetico nazionale sarà pari a 2,9 Mtep, con un’incidenza, che inizia ad essere significativa: 1,6% rispetto a 180 Mtep del consumo totale.
Ricordando quanto calcolato sopra per il solare termico, il confronto si pone tra 2,9 e 0,155 Mtep: il contributo del fotovoltaico ha assunto una dimensione almeno 18 volte superiore a quella del solare termico.
Quali sono i motivi della grande differenza di comportamento nello sviluppo delle due tecnologie?
Per gli operatori del solare termico la causa principale risiede nella scarsa entità delle incentivazioni pubbliche erogate al solare termico in confronto al fotovoltaico.
Senza entrare nel merito di questo argomento, ci sembra doveroso registrare il differente tipo di normativa adottato nei due casi, che non permette un confronto economico immediato. Infatti, nel caso dei collettori termici, le incentivazioni derivano da provvedimenti, in parte, statali e, in parte, regionali e comunali. La filosofia delle erogazioni è comunque basata su benefici in conto capitale, senza alcuna relazione con l’effettiva produzione d’energia termica da parte degli impianti.
Nel caso del fotovoltaico, l’incentivazione è regolata dal decreto di legge, detto del Conto Energia, dove la filosofia delle incentivazioni pubbliche è basata strettamente sulla quantità d’energia prodotta dagli impianti, che è contabilizzata all’atto della sua immissione nella rete elettrica nazionale.
Non essendoci elementi in comune, appare, pertanto, chiaro come non sia possibile una comparazione economica diretta e come invece occorrerebbe procedere attraverso un confronto analitico dei costi rispettivi di produzione dell’unità d’energia nei due casi, incentivazioni incluse. Solo dal paragone tra tali costi e i prezzi esistenti nei rispettivi mercati può venire fuori un giudizio motivato sui vantaggi tra le due normative d’incentivazione.
Indubbiamente l’argomento è interessante, ma sarebbe molto dispersivo da affrontare qui. D’altra parte, esiste un’altra via, un po’ approssimata, ma più sintetica per arrivare ad una conclusione.
Il criterio che ha guidato il legislatore in entrambi i casi è stato lo stesso. Poiché il costo di produzione dell’unità d’energia non è competitivo, è necessario incentivare il mercato in modo da creare un vantaggio economico da parte dell’utente. L’entità dell’incentivo deve permettere di recuperare l’investimento entro la vita utile dell’impianto con un margine economico positivo. Il criterio adottato nei due casi è stato quello che si potesse rientrare dall’investimento a circa metà vita, in modo da avere un utile netto nella seconda metà della vita operativa. Per gl’impianti termici la vita operativa è stata considerata di circa 15 anni e per il fotovoltaico di 25 anni.
L’entità delle incentivazioni in conto capitale per il solare termico è fissata in modo tale che l’utente possa rientrare dall’investimento in circa 7 anni e realizzare in seguito un piccolo profitto. Analogamente la tariffa del Conto Energia per la vendita alla rete dei kWh fotovoltaici permette il recupero dell’investimento nei primi 10-12 anni e poi il profitto. Quindi, per gli utenti, le incentivazioni in entrambi i casi garantiscono un ritorno finale positivo dell’investimento.
In conclusione, dal punto di vista del diritto, entrambe le tecnologie sono state trattate allo stesso modo. Evidentemente esistono altri motivi per cui il mercato sta privilegiando il fotovoltaico, tanto più che ciò non accade solo in Italia, ma anche in altri paesi, dove le incentivazioni hanno entità e normative diverse da quelle italiane. A titolo d’esempio, vediamo che cosa sta accadendo in Germania, dove una grande attenzione pubblica fu posta sul solare termico fin dai primi anni ’80, cosa che ha consentito al settore un grande e duraturo sviluppo.
La Fig.5 mostra il grafico circa l’andamento nell’ultimo decennio della potenza cumulativa istallata nel Paese per il solare a collettori termici piani, a confronto con il fotovoltaico.

Come si può notare, anche in questo caso la potenza termica cresce in modo pressappoco lineare, mentre il fotovoltaico mostra un tasso di sviluppo esponenziale, che ha consentito di raggiungere e superare nel 2009 la capacità termica istallata, portandosi nel 2010 quasi al doppio di essa.
Pertanto, senza voler generalizzare questa situazione e senza ignorare il fatto che entrambe le tecnologie hanno un grande valore strategico, prendiamo atto dell’esistenza di altre motivazioni, non solo economiche, che favoriscono la diffusione del fotovoltaico in paesi come l’Italia e la Germania.
Proviamo ad elencare alcune caratteristiche del fotovoltaico che ci sembrano vantaggiose e che possono spiegare il differente tasso di sviluppo del mercato.
1. L’energia elettrica è una forma d’energia pregiata. Il significato di questa affermazione, spesso usata in letteratura, apparirà chiaro quando si consideri il caso del fotovoltaico, dove la radiazione solare è trasformata direttamente in energia elettrica. In questo caso, l’energia fotovoltaica è destinata esclusivamente all’uso finale elettrico, che in Italia pesa per circa 1/3 sul bilancio energetico nazionale. Pertanto, fino a che lo sviluppo della produzione avrà dimensioni tali da restare dentro questo settore (ed esiste ancora un enorme margine di sviluppo), i kWh fotovoltaici andranno a sostituire un pari numero di kWh elettrici prodotti dalle centrali termoelettriche convenzionali. Ciò si traduce nel fatto che ogni kWh fotovoltaico, impiegato negli usi elettrici, permette il risparmio della quantità di combustibile fossile che sarebbe necessaria per la sua produzione termoelettrica. Poiché in media, nella situazione italiana, ci vogliono 2200 kcal per produrre 1 kWh termoelettrico, ne segue che il kWh fotovoltaico può essere valorizzato applicando l’equivalenza, (già usata sopra): 1 kWh fotovoltaico = 0,22 kep (kg equivalenti di petrolio). La stessa equivalenza non può essere usata per i kWh del solare termico, perché in questo caso ogni kWh consente il risparmio di soli 0,086 kep di combustibile fossile. La differenza è pari ad un fattore circa 2,5 e gioca tutta in favore del fotovoltaico.
2. Negli anni ’80, mentre esponevo una mia relazione sul fotovoltaico in un convegno tenuto in Campidoglio ed indetto dalla Fondazione Dragan, mi vidi passare un foglietto da parte del presidente dell’ENEL, Prof. Arnaldo Maria Angelini, che mi sedeva a fianco. La nota diceva pressappoco così: “Quello che Lei sta dicendo è molto bello, ma si ricordi che se e quando il fotovoltaico avrà successo, lo dovrà esclusivamente alla presenza della rete elettrica nazionale”. Il significato profondo di questa osservazione mi è divenuto più chiaro in questi giorni, mentre osservo lo sviluppo esponenziale di questa tecnologia a confronto con la crescita minore del solare termico. Indubbiamente entrambe le tecnologie sono versatili e duttili nel senso che sono applicabili in una estesa gamma di applicazioni sparse sul territorio. Ma la caratteristica più vantaggiosa del fotovoltaico si chiama vettoriabilità energetica. Al contrario del calore, l’elettricità si può trasportare facilmente con basse perdite per lunghe distanze, anche per centinaia di chilometri. Questo fatto svincola completamente la localizzazione degli impianti di produzione dai luoghi d’utenza, permettendo un grande grado di libertà nella scelta dei siti. A parte il caso particolarmente conveniente dell’impianto di generazione sul tetto degli edifici domestici, la presenza diffusa sul territorio nazionale della rete elettrica offre immense possibilità di localizzazione delle centrali, la cui produzione può essere facilmente messa a disposizione degli utenti vicini e lontani tramite la linea. In questo modo, è divenuto conveniente collocare un impianto fotovoltaico dovunque esista un terreno marginale non coltivabile, una discarica abbandonata, un capannone industriale, ecc, purché bene assolati e prossimi alla rete elettrica. E ciò è quanto sta avvenendo in tutta Europa, anche in paesi molto meno assolati dell’Italia come la Germania. E’ evidente che questo tipo d’opportunità non esiste per il solare termico, i cui impianti sono tecnicamente vincolati alla vicinanza con le utenze.
3. La normativa del Conto Energia, indipendentemente dall’entità dell’incentivazione offerta sui kWh prodotti, possiede un vantaggio sulle norme degli incentivi in conto capitale, di cui usufruisce il solare termico. Si tratta della possibilità di monetizzare la resa economica nel corso dell’esercizio degli impianti. Chiunque possieda un sito dove sia possibile realizzare un impianto fotovoltaico può divenire produttore elettrico e, una volta collegato alla rete, può percepire un reddito in euro erogato dal GSE, sia dalla tariffa d’incentivazione, sia dalla vendita dei kWh alla rete nazionale. Dopo 10-12 anni, una volta ripagato il debito contratto per la costruzione dell’impianto, il proprietario riceve un flusso di cassa reale in moneta corrente, che può destinare ad altri impieghi. Nel caso del solare termico ciò non accade, in quanto il proprietario dell’impianto vede per tutta la durata dell’esercizio un reddito virtuale sotto forma di risparmio sulla spesa energetica. Anche se sul piano economico generale le due opzioni dovrebbero essere equivalenti, tuttavia la monetizzazione del reddito è percepita dagli utenti come una modalità più vantaggiosa.

venerdì, ottobre 07, 2011

Il settemiliardesimo terrestre

Con questo articolo, gentilmente concesso dal celebre ecologista Giorgio Nebbia e già apparso su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 4 Ottobre scorso, qui, proseguiamo la riflessione già avviata da Luca Pardi sulla cruciale questione demografica.





Scritto da Giorgio Nebbia

Una di queste settimane è nato o nascerà, non si sa dove, il settemiliardesimo abitante della Terra. Il cinquemiliardesimo nacque nel luglio 1987; dodici anni dopo, nell’ottobre 1999, nacque il seimiliardesimo terrestre. Adesso, dopo altri dodici anni, la popolazione terrestre raggiunge i sette miliardi di abitanti: circa mille milioni di aumento ogni dodici anni. Probabilmente la velocità della crescita dei terrestri diminuirà; forse ci vorranno quattordici o quindici anni per arrivare, forse verso il 2025, ad una popolazione di otto miliardi di abitanti. Il problema ha molti aspetti demografici, morali (se è bene o male che la popolazione mondiale aumenti), geopolitici (in quali paesi aumenta di più la popolazione). A chi si occupa di ambiente interessa piuttosto pensare come sarà possibile far fronte alla crescente richiesta di risorse materiali estratte dalla natura, di merci e alla crescente produzione di rifiuti.

Il demografo Alfred Sauvy (1898-1990) nel 1952 suggerì che esisteva il mondo dei paesi industriali capitalistici, quello dei paesi industriali comunisti e il “terzo mondo”. Dopo la fine del comunismo si classificarono gli abitanti della Terra a seconda dell’appartenenza al Nord (ricco) o al Sud (povero) del mondo. Nel corso di dieci anni, contrapposti ai vecchi imperi del “primo mondo”, l’Europa, il Nord America, l’Australia e poi il Giappone, complessivamente circa un miliardo di persone, sono nati tre giganti industriali, la Cina, l’India, il Brasile, più alcuni altri, che stanno inondando il mondo di acciaio, navi, prodotti chimici, automobili, apparecchiature elettroniche, prodotti agricoli e forestali. In cifra tonda un “impero” di circa 4 miliardi di persone. C’è poi un nuovo “terzo mondo”, un altro paio di miliardi di persone sparsi in Africa, Asia, America Latina, in piena agitazione politica, alla ricerca di cibo, acqua, beni materiali, energia, abitazioni, lavoro.

Un libro intitolato ”Terra”, pubblicato da Carocci nei mesi scorsi, contiene fra l’altro qualche conto su quante tonnellate di “natura” i terrestri assorbono. Per mangiare assorbono ogni anno, oltre 10 miliardi di tonnellate di biomassa vegetale e animale per la cui produzione occorrono, oltre ai gas dell’atmosfera, anidride carbonica e ossigeno, circa 3000 miliardi di tonnellate di acqua all’anno. A cui va aggiunto un fabbisogno di altri circa 500 miliardi di tonnellate all’anno di acqua necessaria per usi alimentari e per usi igienici. Ma le attività umane hanno bisogno di molte altre cose la cui quantità supera i 200 miliardi di tonnellate all’anno: minerali, combustibili fossili, materiali da costruzione, legname, eccetera, tutti materiali che si trasformano in prodotti di consumo, insieme alle scorie di lavorazione. E i prodotti di consumo si trasformano, a loro volta, più meno rapidamente, in rifiuti solidi, liquidi e gassosi. Fra scorie e rifiuti i beni fisici e materiali estratti dalla natura ritornano alla natura in ragione di circa 300 miliardi di tonnellate all’anno (circa 40 miliardi di tonnellate all’anno solo l’anidride carbonica che influenza negativamente il clima planetario).

“All’anno” significa che ogni anno la stessa, se non maggiore, quantità di beni sarà estratta dalle risorse limitate della natura, e di rifiuti sarà immessa nell’aria, nel suolo, negli oceani peggiorandone la qualità, cioè la possibilità di essere utilizzati dagli esseri umani. A questo gigantesco flusso di materia il nuovo primo mondo (il 15 % della popolazione totale) partecipa per circa il 50 %; il 50 % della popolazione mondiale che abita i ”nuovi imperi” usa circa il 35 % dei beni della Terra; ai due miliardi di abitanti del nuovo ”terzo mondo”, il 35 % della popolazione totale, resta la possibilità di usare appena un 15 % delle risorse naturali e ambientali.

Fino a quando questi ultimi accetteranno una così sfacciata disuguaglianza ? Senza contare che “i poveri” si affacciano alla scena del mondo con una popolazione giovane, aggressiva, arrabbiata, disposta ad accedere ai beni materiali immigrando nei paesi ricchi del primo mondo, “vecchi” di età, sempre più bisognosi di nuova mano d’opera, sempre meno capaci di produrre e fabbricare cose utili, di innovazione, dilaniati da gelosie politiche, privi di una “visione di futuro”, come la chiamava il pensatore Aurelio Peccei (1908-1984). “Poveri” disposti ad appropriarsi con la forza del potere che, lo si vede nei paesi islamici e africani, si chiama petrolio, diamanti, minerali, terre coltivabili; si chiama, terribile parola, democrazia popolare

Il settemiliardesimo bambino nasce, dovunque sia, in un mondo turbolento, pieno di ingiustizie e contraddizioni ma ricco di speranze di mutamenti. E ricco di beni naturali che possono soddisfare i bisogni di tutti se i ricchi si accontenteranno di meno per lasciare ai poveri la possibilità di una vita decente. Utile rilettura: la enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI (1967) che parlava proprio di “sviluppo dei popoli”, specialmente dei poveri.

martedì, ottobre 04, 2011

Ambiente: la popolazione conta

Pubblichiamo volentieri questo stimolante articolo scritto da Luca Pardi, attuale Vice-presidente di Aspoitalia, su una questione tanto cruciale quanto trascurata, quella demografica.


Scritto da Luca Pardi


Nel corso di questi anni, dal 2003 in poi, con l'associazione Rientrodolce (qui il sito) che ha appena finito il suo quinto congresso eleggendo i suoi nuovi responsabili, abbiamo investigato la questione demografica e le possibili strategie, necessariamente transnazionali, con cui affrontarla in un quadro di rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali.
Abbiamo visto che (dati della Banca Mondiale) al mondo ogni anno si stimano 85 milioni di gravidanze indesiderate (leggi qui).

Di queste 33 milioni risultano in nascite non programmate, 41 milioni in interruzioni di gravidanza e 11 milioni in aborti spontanei. Lavorando un po’ sull’educazione sessuale e riproduttiva, ma anche solo distribuendo anticoncezionali gratis si potrebbe ridurre il numero totale di nati di alcune decine di milioni. Sarebbe un primo passo, senza bisogno di aspettare che tutto il mondo abbia percorso la via dell’autodistruzione industriale.

Come ho scritto qui, Robert Engelmann ci ha insegnato che nei posti più reconditi del mondo sottosviluppato le donne sanno dell’esistenza degli anticoncezionali e vorrebbero averli a disposizione per aver pieno (e sacrosanto) controllo della propria fertilità. E questo prima che tutto il mondo sottosviluppato percorra la via dell’autodistruzione consumista.
Nel giugno scorso Engelmann è succeduto a Lester Brown alla guida del World Watch Institute. Speriamo di sentir parlare più spesso di sovrappopolazione e riduzione della natalità.
Bill Ryerson del Population Media Center ci ha mostrato come attraverso l'uso dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione con le soap operas, sia possibile far passare in una popolazione con alto tasso di natalità il messaggio che sia il controllo della fertilità attraverso l'uso degli anticoncezionali, sia la dimensione ridotta delle famiglie sono fattori positivi nella lotta alla povertà.

E’ ovvio che non si tratta di iniziative di paternalismo colonialista, ma proprio il contrario. Alle oligarchie del denaro fa comodo una grande massa di disgraziati pronti a fare gli schiavi togliendo alle masse di lavoratori- consumatori del mondo sviluppato le conquiste di due secoli di lotte. Forse sono battaglie che si infrangono su tradizioni ancora vive nei paesi del terzo mondo e non solo. Ma su questo francamente sono d’accordo con chi sostiene che non esiste una sola tradizione che valga la pena di difendere.
Vogliamo difendere le mutilazioni genitali, la ius primae noctis, lo schiavismo degli arabi sugli animisti in alcuni paesi subsahariani? Certamente no. Ne possiamo accettare quella sottomissione femminile che genera la perdita di controllo del proprio corpo e della scelta di quanti figli fare e in quale momento della propria vita da parte delle donne. E l’empowerment femminile è infatti il punto di partenza affinché le donne prendano controllo sulla propria fertilità. Dopodiché si tratterà di convincerle che una famiglia più piccola è meglio di una più grande.
Non torniamo a proporre all'infinito il tormentone della transizione demografica, una legge che non ha alcun valore predittivo essendo solo la descrizione di quello che è successo in un determinato periodo storico-economico in una parte del mondo. Altrimenti sembra che con la transizione demografica i demografi (il compianto Luigi De Marchi, che con i suoi editoriali sul tema demografico ha arricchito le mattine di Radio Radicale per molti anni, li considerava mediocri studiosi di statistica) abbiano scoperto una legge naturale come la Gravitazione Universale. E neanche torniamo sulla storia che le società povere fanno più figli perché bla bla bla e via con gli economicismi, i sociologismi, e le giustificazioni a posteriori di quanto osservato.
E’ proprio su questo che dovremmo lavorare. Invece si passa gli anni a lavorare sui sintomi. Lo disse anche il “nostro” Jay Forrester prima dell'incontro sul clima del 2009 a Copenaghen (la traduzione è qui).

I due elefanti nella stanza, che in pochi siamo disposti a vedere, sono: la dimensione della popolazione e quella della produzione industriale. La dimensione della popolazione fa parte del problema ambientale e l'ecologismo politico non dovrebbe mai dimenticarlo.
Viene a proposito in questi giorni l'invito di un'associazione francese dal nome azzeccato: Demographie Responsable a sottoscrivere una petizione (disponibile qui) a favore della contraccezione gratuita.