sabato, aprile 30, 2011

ASPO: mission impossible

Rembrandt Koppelaar, presidente di ASPO-Olanda, uno degli organizzatori principali di ASPO-9 a Bruxelles in Aprile del 2011

Con la conclusione del convegno di Bruxelles, il nono della serie delle conferenze internazionali di ASPO, ci avviamo ai dieci anni di esistenza dell'associazione in una forma, più o meno, "ufficiale". Peraltro, i concetti alla base di ASPO erano venuti fuori già nel 1998 quando Colin Campbell e Jean Laherrere avevano pubblicato il loro lavoro "The End of Cheap Oil" (la fine del petrolio a buon mercato) su "Scientific American". L'idea di mettere insieme un'associazione che si occupasse di questo argomento era venuta fuori, come ci racconta Colin Campbell, a un meeting in Germania già nel 2000.

A questo punto, forse possiamo fermarci un attimo a ripensare. Qual'è stato il ruolo di ASPO in questi anni? Che cosa abbiamo ottenuto, e che cosa non siamo riusciti a ottenere? Argomento del quale si è discusso a lungo in varie sedi al convegno di Bruxelles, forse più di tutti nell' "inner circle" del comitato direttivo internazionale.

Come sempre su tanti argomenti, ci sono opinioni molto varie - di queste vi posso passare la mia (modesta). Sostanzialmente, ASPO era nata con una mission che è tutt'ora espressa con chiarezza nel sito dell'associazione (www.peakoil.net)

  1. Definire e valutare le riserve mondiali di petrolio e gas;
  2. Modellizzare l'esaurimento, prendendo in dovuta considerazione la domanda, l'economia, la tecnologia e la politica;
  3. Sollevare la consapevolezza delle importanti conseguenze per l'umanità.

Bene, credo che i primi due scopi siano stati realizzati anche ben oltre le speranze iniziali. Negli anni, ASPO si è evoluta passando da un gruppetto di geologi petroliferi in pensione in un bel gruppo di scienziati, come si suol dire, "con gli attributi" esperti in vari campi della scienza, non soltanto di geologia, ma - in particolare - di modellizazione dinamica. E, in più, con un gruppo altrettanto numeroso e agguerrito di persone impegnate nella politica dell'energia, nella sostenibilità, nell'ambiente e nel clima.

Ma, purtroppo, se andiamo a vedere il terzo scopo, forse quello principale, credo che sia evidente che lo sforzo di ASPO non ha avuto successo. Mi affretto a dire non per colpa dei membri di ASPO; non è una qustione di mancanza di sforzo, di buona volontà o di competenza. No, era proprio una missione impossibile.

Di questo me ne sono reso conto a Bruxelles in uno di quei flash di comprensione che ti arrivano ogni tanto. E' stato quando Eric Townsend ha detto che i traders finanziari, intelligenti come si credono di essere, ritengono comunemente che l'idea stessa di "picco del petrolio" è stata completamente dimostrata falsa dal crollo dei prezzi del petrolio del 2009. Questa sua esperienza è parallela alla mia, dove mi ricordo di essere stato pubblicamento contraddetto da un deputato della repubblica che ha detto che non credeva una parola di quello che avevo detto dato che "i prezzi si sono abbassati" (questo era riferito a una piccola fluttuazione che ci fu nel 2005). E questo era uno di sinistra, noto per il suo impegno ambientalista!!

Ora, qui c'è un problema fondamentale. Politici e trader non è che siano dei fessi. E il concetto di "picco del petrolio" non è che sia poi una cosa così difficile da capire - dopo tutto. Diamine, come si fa a ragionare in questo modo? Un abbassamento dei prezzi può veramente voler dire che una risorsa fisicamente finita diventa magicamente infinita? 

Ci scontriamo con la sostanziale incapacità della società, a tutti i livelli, di capire e mettere in pratica concetti che non siano estremamente semplificati. Me ne rendo conto continuamente a tutti i livelli. Il ragionamento nella media è a livelli addirittura binari, ovvero: buono/non buono. Prezzi alti del petrolio? Non buono. Prezzi bassi? Buono.

Così, sono più di dieci anni che parliamo di picco del petrolio. Le nostre predizioni si stanno tutte avverando. Invece, quelli che ci davano di folli sovversivi (tipo l'IEA) hanno fatto errori clamorosi e, recentemente, sono stati costretti anche loro ad ammettere - sia pure obliquamente - che siamo al picco. Eppure, siamo ancora a dire che "bisogna aumentare la consapevolezza delle conseguenze per l'umanità." Cosa dobbiamo aspettare prima che si accorgano che qualcosa sta succedendo col petrolio? Che cominciamo a farci la guerra con le asce di pietra?

Non so spiegare esattamente quali siano le ragioni di questa estrema difficoltà per la società di rendersi conto con sufficiente anticipo dei problemi che abbiamo davanti. Credo che, alla fine dei conti, del problema del picco finiranno per capirlo anche i politici, ma quando ci arriveremo saremo ormai bene sulla china della discesa. E sarà troppo tardi per reagire in modo efficace. Un vero peccato, perché ASPO aveva dato l'allarme con più di dieci anni di anticipo.

Il problema è perfettamente parallelo a quello climatico. Anche li', l'allerta è stata data con molto anticipo, in questo caso con alcuni decenni di anticipo. Ma è stata ignorata e - curiosamente - più l'evidenza si accumula a proposito del riscaldamento globale, più si cerca di ignorarlo o addirittura negarlo. Per non parlare dell'allarme sull'esaurimento generalizzato delle risorse, dato dal gruppo dei "Limiti dello Sviluppo" già nel 1972. Anche quello, demonizzato e ignorato.

Deve essere qualcosa che ha a che fare con come è strutturata la mente umana. Anche di questo, stiamo cominciando a renderci conto adesso, come si può leggere in questo articolo intitolato "la scienza del perché non crediamo alla scienza" Anche su questo, purtroppo, arriviamo troppo tardi.

venerdì, aprile 29, 2011

ASPO-9 a Brussels: terzo giorno




Terzo e ultimo giorno di ASPO-9 e, stamattina, forse era meglio se me ne stavo in albergo a guardarmi il matrimonio reale. Ma si impara sempre qualcosa anche dalle cattive presentazioni. Quella di Darren Bezdek è stata in effetti molto istruttiva. Lui è direttore di qualche cosa chiamata “Energy Studies” e immagino che sia pagate per fare piani  di qualche tipo; cose tipo mitigazione, emergenza, razionamento dei combustibili. Già il fatto che facciano questi piani non ha molto senso. Fuori di ASPO e pochi gruppetti di gente che non ha passato la giornata a guardare il matrimonio reale, nessuno ha la minima intenzione di mettere in pratica piani di mitigazione di alcunché.

Quello che è preoccupante di Bezdek è che la sua “mitigazione” è basata più che altro su liquidi ottenuti dal carbone, dallo shale gas e da robaccia del genere. E, ovviamente, per lui il fotovoltaico costa troppo caro. Ha detto chiaramente che questa mitigazione basata sulle peggiori sporcizie del pianeta si potrà fare se si riesce a mettere a tacere questi sciocchi ambientalisti e le loro obiezioni. Un altro tizio che non ha ancora capito qual'è il problema vero; ovvero che a bruciare tutta questa robaccia ci troveremmo a finire - letteralmente - dalla padella nella brace; ovvero per mitigare (e nemmeno di tanto) il picco del petrolio peggioreremmo enormemente il problema climatico.

Finisce dicendo “Humankind will rise to the challenges ahead and prevail” Tradotto: “Il BAU vincerà!” Bravo, continua così che ci fai tutti sognare. Meno male che nella sessione delle domanda ne hanno detto peste e corna e uno che si è alzato e gli ha detto, più o meno, , “sei inadatto a parlare in ASPO; non avrebbero dovuto invitarti.” Al che, ha avuto applausi a scena aperta. Bezdek ci deve essere rimasto piuttosto male, ma se lo meritava in pieno

Ci sono state alcune buone presentazioni oggi; ma vedrò poi di scrivere qualche riflessione più meditata. Si è anche tenuta oggi la riunione del comitato direttivo di ASPO internazionale. Fra le altre cose, vi posso dire che la prossima conferenza di ASPO si dovrebbe tenere a Vienna nel 2012, con un'opzione di tenerla a Uppsala se ci sono dei problemi con Vienna. Questo se mai si terrà una prossima conferenza, visto quello che si è detto ieri (collasso economico imminente).

Per ora è tutto, questa conferenza è stata veramente faticosa: tre giorni tutti di seguito; senza respiro; petrolio, petrolio e petrolio. Ci tengo a ringraziare Giovanni Marocchi per avermi dato una mano come membro della delegazione di ASPO-Italia

La settimana prossima ci sarà un'altra conferenza sul picco del petrolio in Spagna (!!) vi relazionerò anche su questa.

giovedì, aprile 28, 2011

ASPO-9 a Brussels: la seconda giornata




Entra nel vivo oggi il convegno ASPO di Bruxelles. Va detto che per molti di noi certe cose sono già note, quindi tralascio di relazionare su molte presentazioni - come quella di Dave Murphy sull'EROEI - che sono cose che conosciamo bene. Magari le conoscessero bene anche i politici e gli economisti, ma si sa, ormai, che questa è una pia speranza.

Invece, oggi c'erano proprio loro: gli economisti. Il primo è stato Jeff Rubin - economista canadese molto noto. Ha parlato per un'ora di cose orribili, bancarotta imminente della Grecia e del Portogallo, fine dell'Unione Europea entro un anno e mezzo, cosette del genere. Ma sempre in modo obliquo; dicendo e non dicendo. Non ha mai menzionato il picco, se non preceduto dalla parola “cosiddetto”. Alla fine, si è limitato a dire “fine della crescita”; ma ha indorato la pillola dicendo che non è la fine del mondo. Sembrava un prete dal pulpito. Sembrava un po' che dicesse , "si, siete dei peccatori e rischiate le fiamme dell'inferno, ma ora confessatevi e pentitevi, che poi tutto andrà bene."

Poi è arrivato Doug Reynolds, economista americano basato in Alaska. Reynolds lo conosciamo bene in ASPO; è stato anche in Italia su mio invito qualche anno fa. Lui ha sparato giù di brutto: altro che “no growth”. Ha fatto l'esempio dell'Unione Sovietica e parlato di iperinflazione, collasso del sistema, collasso del sistema sanitario, collasso del sistema militare. Suggerisce di fare scorta di cose come alcool e sigarette, che saranno la moneta del futuro.

A questo punto, ho chiesto ai "distinguished economists of the panel" una cosa che mi ero sempre domandato: Come mai negli anni '70 l'inflazione era tanto più alta che oggi? Devo dire che Rubin mi ha dato un'ottima risposta. In primo luogo, ha detto che c'è inflazione in paesi come Cina e India - dove le economie continuano a crescerre. Ma il punto fondamentale è che nei paesi occidentali non la vediamo per via dalla globalizzazione. Ovvero, l'inflazione ha lo scopo di distruggere il potere d'acquisto dei salari. In un regime di globalizzazione, questo si può ottenere altrettanto bene mediante lo "outsourcing", ovvero mettendo i lavoratori occidentali in diretta competizione con quelli dei paesi poveri. Hey, non vi ci arrabbiate: è così che funziona il mondo, baby!

Reynolds ha confermato, citando ancora l'Unione Sovietica e dicendo che l'iperinflazione esploderà non appena vedremo il petrolio toccare i 200 dollari al barile. A quel punto, aspettatevi di accendere la stufa con i biglietti da cento euro. Il moderatore ha ringraziato per l'ottimismo; ma in platea c'è stato un momento di gelo.

Più tardi. Eric Townsend ha dato un altro talk molto interessante su come gli investitori vedono il peak oil – semplicemente non lo vedono. Ha fatto vedere come il mercato dei Brent future sia tutto in backwardation – ovvero gli investitori non si aspettano di vedere un aumento dei prezzi; anzi. Dice townsend che quando dice ai traders “picco del petrolio” loro rispondono “picco cosa?” Una cosa veramente orribile che ha detto è che i “traders” sono gente che si crede di essere il top solo perché hanno trovato il modo di fare un sacco di soldi, ritengono che il concetto di “peak oil” sia stato completamente demolito dal crollo dei prezzi del petrolio che si è verificato nel 2008. Ahimé.

Anche Townsend si aspetta un “big crunch” nel futuro prossimo con iperinflazione e disastri vari. Si aspetta che ci sia un altro crollo dei prezzi a breve scadenza, con il dovuto collasso delle varie economie. Insomma, questa cosa gira.

Insomma, dopo questa panoramica credo che si rischia che non ci sia mai un ASPO-10, perché saremo tutti troppo occupati a coltivare patate.

Comunque, la conferenza è continuata con vari talk. Il più interessante credo sia stato quello di Euan Mearns, che è tornato al fantasma che aleggia sulla conferenza: quello della relazione fra peak oil e climate change. Euan Mearns – si sa – è un negazionista climatico, ma o ha cambiato idea oppure non lo ha dato a vedere; saggiamente. Ha fatto un discorso giusto: se aumentiamo l'efficienza energetica saremo in grado di permetterci risorse più costose – questo vuol dire che potremo continuare a estrarre risorse sporche come tar sands e shale gas. E questo vuol dire che la maggiore efficienza energetica ci potrebbe portare a emettere ancora più CO2.

Alla mia domanda se secondo lui è veramente possibile sequestrare la CO2 – Mearns risponde che secondo lui si può forse fare dal punto di vista geologico, ma è probabilmente impossibile dal punto di vista finanziario.

Domani ultimo giorno di conferenza. Relazione a seguire

Confermato il crollo delle emissioni di gas serra in Italia

Come volevasi dimostrare. Nell’articolo “Se non è un picco questo” avevamo previsto un crollo delle emissioni nazionali di CO2 equivalente nel 2009, proiettando i dati storici ufficiali disponibili sul sito di Sinanet in proporzione al calo dei consumi energetici totali registrato nello stesso anno.

Ebbene, in questi giorni Sinanet ha pubblicato i dati ufficiali per il 2009 che confermano praticamente la nostra previsione. Avevamo quasi centrato i megaton di emissioni complessive e il grafico definitivo qui accanto (si può ingrandire cliccandoci sopra) si discosta solo impercettibilmente da quello già pubblicato. L’obiettivo di Kyoto è sostanzialmente centrato.

Ancora più impressionante risulta poi il crollo nello stesso grafico riferito però alle emissioni specifiche, cioè le tonnellate emesse in media da ogni italiano, passate da un picco di circa 10 tonnellate alle poco più di 8,5 tonnellate del 2009. L’Unione Europea nel suo insieme aveva già conseguito l’obiettivo del Protocollo di Kyoto nel 2008 e, quando saranno ufficiali i dati del 2009, addirittura sarà abbondantemente sotto questo livello, come avevamo anticipato in quest’altro articolo.

Immagino la felicità generale nell’apprendere queste insperate e positive notizie, solo un po’ attenuate dal fatto che nel 2010, in corrispondenza di una limitata ripresa economica, certamente verificheremo un parziale anche se ridotto recupero dei valori emissivi.

“Bisogna tornare a crescere”, “Il vero problema dell’Italia è la mancanza di crescita economica”, si sente ripetere fino allo sfinimento in televisione da economisti e commentatori, mentre la telecamera indugia sugli spettatori che fanno sì con la testa.

Scopriamo così che la maggior parte delle persone è contemporaneamente felice per la riduzione dell’effetto serra e per la crescita della sua causa e non capiamo se si tratti di ingenuità o malafede.

mercoledì, aprile 27, 2011

ASPO-9 a Brussels



E' in pieno svolgimento il nono congresso di ASPO internazionale a Brussels. Ci sono tutti i "big" del peak oil, un po' da tutto il mondo - c'è chi è venuto dall'Australia e chi dalla Nuova Zelanda.

Per ora riferisco "a caldo" dall'albergo - poi vedrò di fare un resoconto un po' più ragionato. Oggi, intanto c'è stato un piccolo scontro sulla questione climatica. Dopo l'esposizione di Van Ypersele, vicepresidente dell'IPCC, Colin Campbell ha dichiarato pubblicamente "fino ad oggi ero un po' scettico sul cambiamento climatico, ma dopo aver sentito questa esposizione, ho cambiato idea: avete davanti a voi un convertito!"

Non per niente Campbell è quello che ha fondato ASPO!!

La questione climatica è rimasta comunque sullo sfondo dei talk di oggi, con il pubblico chiaramente conscio dei rischi connessi, in particolare dei "feedback positivi". Qualcuno rimane convinto che il peak oil risolverà anche il problema climatico (Kjell Aleklett) ma sono chiaramente una minoranza.

Il convegno continua domani - scusate che non vi posso mandare immagini del convegno, dato che per un disguido sono rimasto senza una macchina fotografica funzionante

martedì, aprile 26, 2011

Come la tragedia di Fukushima è divenuta una comoda exit strategy per uscire dal pantano nucleare



Pubblichiamo questa interessante e approfondita analisi storico - politica del nucleare italiano e una possibile interpretazione degli eventi che hanno condotto al ripensamento del governo italiano.


Scritto da Eugenio Saraceno


La notizia è ancora fresca, il programma nucleare italiano è sospeso.
Tralascio le analisi riguardanti l’opportunità di sospendere una legge sulla quale è stato indetto un referendum e che in tal caso verrebbe a cadere e le polemiche sulla possibilità che tale sospensione sia funzionale allo svuotamento di alcuni referendum su leggi di particolare interesse per il governo che avrebbero potuto raggiungere il quorum trainati dalla pubblicità sul quesito nucleare e preferisco focalizzare l’attenzione sull’aspetto riguardante la politica energetica.

E’noto che l’attuale governo, pur non avendo inserito esplicitamente la rinascita del nucleare nel proprio programma, inserì le norme appena sospese tra le prime leggi promulgate dopo aver vinto le elezioni. Pertanto la compagine governativa è stata definita “nuclearista”. Il precedente programma nucleare italiano, pur avendo raggiunto rapidamente degli obbiettivi notevoli per l’epoca in termini di potenza installata e di avanzamento tecnologico, rallentò e si arenò già prima che il referendum dell’87 sancisse la moratoria per gli impianti in costruzione (Montalto di Castro - VT). Il referendum non imponeva la chiusura degli impianti esistenti ma questi furono comunque fermati poco dopo per decisione del governo, compreso l’allora recentissimo impianto di Caorso da 800 MW entrato in esercizio solo nel 1980.

Le ragioni per tale solerzia del governo di allora nell’assecondare l’opinione pubblica sul tema dell’uscita dal nucleare ben oltre gli effetti del quesito referendario, a posteriori, sono comprensibili. A parte i motivi di consenso elettorale, a mio avviso, il governo era consapevole che il programma nucleare italiano non poteva proseguire perché mancava di alcuni aspetti fondamentali presenti in altri paesi, come ad esempio la Francia, che ancor oggi consentono di mantenere salda una strategia energetica basata sull’energia nucleare:

1) Mancanza di una filiera nazionale o almeno di una scelta chiara su una filiera commercialmente disponibile: In Italia, a parte alcune aziende subappaltatrici e di supporto, non è mai esistita una filiera nazionale nucleare. Il vecchio programma nucleare italiano, contrariamente ad altri paesi, prevedeva di sperimentare più filiere disponibili sul mercato. I quattro impianti erano tutti di tecnologie diverse e quindi con procedure , operazioni, manutenzioni e gestioni specifiche, non standardizzabili e dunque portatrici di diseconomie notevoli. I paesi che dispongono di una o più filiere nazionali hanno minori costi di gestione ed inoltre sviluppano una larga piattaforma di imprese domestiche legate al programma nucleare. Maggiore è il numero di operatori economici interessati allo sviluppo di un programma nucleare e maggiormente tale interesse si riverbera sui media che assumono posizioni tali da favorire l’immagine dell’industria nucleare presso l’opinione pubblica. In mancanza di tale convergenza di interessi un programma nucleare è vulnerabile e molto soggetto alle vicende elettorali.

2) Mancanza di un programma atomico militare: La visione che aveva fatto nascere il primo programma nucleare italiano era completa, nel senso che ricalcava l’esperienza dei grandi paesi che nel dopoguerra si impegnarono in programmi analoghi; si prevedeva infatti di portare avanti anche un programma nucleare militare, così come agirono la maggioranza dei paesi allora impegnati nello sviluppo del nucleare, sia civile che militare. In primis le due superpotenze, ma anche l’Inghilterra che sviluppava il suo arsenale e fu anche uno dei primi paesi ad avere una filiera civile. Nel dopoguerra, tra il 1957 ed il 1958, si ipotizzò un programma atomico militare che impegnasse congiuntamente Francia, Italia e Germania. Tale programma fu interrotto nel 1958 per scelta del nuovo presidente francese De Gaulle, che preferì portarlo avanti per conto proprio mentre Italia e Germania in quanto paesi sconfitti non avrebbero potuto procedere autonomamente. Ciò lasciò il programma nucleare italiano menomato del supporto militare che avrebbe potuto creare condizioni molto favorevoli in quanto le scorie dei reattori civili erano una fonte ben remunerata di plutonio per il programma militare. Supporto che invece vi fu in Francia e favorì l’ampio sviluppo del settore atomico civile, sgravato della gestione delle scorie che passavano in carico ai militari e venivano anche pagate.

3) Forte influenza dei competitori dell’industria elettronucleare: L’Italia, anche per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, nel dopoguerra sviluppò in modo abnorme l’industria del downstream petrolifero. I raffinatori disponevano di capacità in eccesso e raffinavano anche per l’esportazione. Questa attività aveva come sottoprodotto molto olio pesante, poco richiesto dal mercato, ma che poteva essere bruciato per la produzione di energia elettrica. Ovviamente l’ampliamento massivo della produzione nucleare poteva essere contrastato da tali gruppi di interesse.

4) Mancata creazione di attività relative al riprocessamento delle scorie. Tale attività, che i maggiori paesi dotati di energia atomica (USA, Francia, Inghilterra, Russia, Giappone) svolgono autonomamente e per conto terzi in propri impianti non era prevista in Italia, ciò introduceva costi aggiuntivi ed una dipendenza da aziende e istituzioni straniere nella delicata fase della gestione delle scorie.

L’attuale rinuncia alle attività di sviluppo del nuovo programma nucleare ricalcano in qualche modo quella passata vicenda, con alcuni elementi nuovi. Ugualmente il nuovo programma nasceva già indebolito dalla mancanza di una filiera nazionale e dalla presenza di un parallelo programma militare. Entrambe in ogni caso sarebbero oggi inattuali per i ritardi tecnologici pluridecennali accumulati sui temi della progettazione di impianti nucleari e per il panorama internazionale che è ben diverso da quello del dopoguerra in cui era ancora plausibile ma non scontato che l’Italia, pur sotto la tutela della Francia, potesse avere un arsenale nucleare.

Oggi tale eventualità suonerebbe come una pericolosa sfida. Parimenti le attività di gestione delle scorie non erano state ancora chiarite ed ai competitori tradizionali dell’industria elettronucleare come i gestori degli impianti termoelettrici a gas naturale, si affiancano i gestori degli impianti ad energie rinnovabili i quali hanno buone argomentazioni a convincere l’opinione pubblica che se ingenti investimenti devono essere impiegati sul settore nucleare, sarebbe meglio impiegarli sulle rinnovabili che hanno minore complessità nella gestione del rischio e non producono scorie o situazioni pericolose. Al contrario della filiera nucleare, su cui ormai si è accumulato un ritardo irrecuperabile, le filiere della green economy sono ancora relativamente giovani e la possibilità di creazione di filiere nazionali non è da escludere.

E’apparso evidente che l’atteggiamento del governo sul tema del nuovo programma nucleare si sia basato più su parole che su fatti, superata la fase iniziale di attivismo, complici probabilmente le difficoltà di bilancio, si era raffreddato molto. La lentezza con cui le varie normative ed istituzioni previste dalla legislazione venivano attuate strideva con la rapidità e la compattezza con cui solitamente lo stesso governo tratta i temi che sono considerati vitali per gli interessi del premier, quali la giustizia o le comunicazioni.

A livello di enti locali, che pure sarebbero coinvolti come attori primari nel processo autorizzativo, si registrava la puntuale defezione di molti governatori regionali in quota ai partiti della maggioranza, nessuno dei quali si dichiarava contrario al nucleare purché, per varie ragioni, non basato nella regione di propria competenza.

Le aziende di produzione dell’energia elettrica erano state designate quali attori principali che avrebbero attuato operativamente il programma, ad esse il governo avrebbe dovuto offrire un quadro normativo chiaro, tale che detti operatori potessero coinvolgere risorse tecnologiche e finanziarie. Pertanto i maggiori player avevano già trovato dei partner internazionali autorevoli come EDF accordatasi con ENEL.

Tuttavia le risorse finanziarie non potevano essere impiegate in mancanza di tasselli chiave ancora mancanti nella normativa e di indirizzi da parte della costituenda Agenzia. Ma ancor più i finanziatori avrebbero voluto garanzie ed impegni onerosi che il Governo si è ben guardato dal prendere. Già il Ministro Tremonti si era espresso contro l’impiego di ingenti risorse pubbliche per il programma nucleare.

Ma è evidente che dal punto di vista degli investitori privati interessati alla realizzazione delle centrali è fondamentale proprio l’impegno di risorse pubbliche mediante la concessione di privilegi, garanzie ed incentivi che riducano il profilo di rischio molto alto degli investimenti nucleari. Profilo di rischio dovuto alla lunghezza dei tempi di ritorno dell’investimento e dalla notevole entità dello stesso, distribuita principalmente nella prima fase del progetto e con un lungo periodo (anche oltre 15 anni) tra l’inizio dell’investimento ed i primi ritorni economici.

Questo tipo di problematica ha ridotto fortemente lo sviluppo del nucleare in tutti i paesi che non prevedono sussidi pubblici agli investitori privati del settore elettronucleare. E’noto, ad esempio, che dal 1977, anno in cui gli Stati Uniti ritirarono gli incentivi agli impianti atomici, nessun nuovo reattore è stato costruito in quel paese. La precedente politica di sussidi e supporto da parte del programma atomico militare avevano consentito fino ad allora di installare oltre 100 reattori.

Per le ragioni sopra espresse il programma atomico italiano era sostanzialmente fermo quando sono intervenuti due avvenimenti che hanno fornito al governo stesso una comoda exit strategy.Il più evidente è la tragedia di Fukushima. Questa ha avuto ripercussioni sui programmi nucleari più deboli perché mancanti delle 4 caratteristiche sopra descritte. La Germania ne ha subito approfittato per abrogare la normativa che prolungava la vita degli impianti più datati. Successivamente si ferma anche il programma italiano. Nello stesso Giappone, dove è ben presente una filiera tecnologica, il ritrattamento delle scorie ed una serie di vincoli che rendono deboli le alternative alla produzione elettronucleare (ad es. la difficoltà ad approvvigionarsi di gas naturale), non si è arrivati ad una così profonda revisione.

Il secondo avvenimento è il grave vulnus inflitto alla sicurezza energetica italiana con l’intervento armato internazionale contro la Libia, intervento che renderà tale paese, da cui provenivano notevoli percentuali del fabbisogno italiano di petrolio e gas, incapace per un tempo indefinito di onorare i propri contratti di fornitura.

Uno dei maggiori protagonisti di tale iniziativa bellica è senz’altro la Francia. L’ipotesi che la politica attuata verso la Libia sia dettata da motivi meramente umanitari è risibile. La Francia, con l’importante appoggio dell’Inghilterra ed il supporto un po’ tiepido ma non certo ostile degli USA ha utilizzato l’opzione militare contro un paese in cui un vicino ed alleato ha importanti interessi energetici. La Francia è anche uno dei maggiori fornitori di energia elettrica per l’Italia tramite le numerose linee elettriche transfrontaliere. La filiera francese EPR è inoltre la candidata più accreditata per il nuovo programma nucleare italiano.

La mia interpretazione è che la mossa internazionale contro la Libia fosse, oltre un tentativo di controllarne le risorse petrolifere, anche un messaggio minaccioso volto a far capire all’Italia che è molto vulnerabile in merito alla sicurezza energetica e che farebbe meglio ad accelerare il proprio programma nucleare, magari facendo una scelta mirata sull’EPR. L’atteggiamento ostile della Francia si è palesato anche nella vicenda dei profughi in fuga dagli stessi eventi sociopolitici.

L’Italia ha invece risposto abbandonando l’ex amico libico Gheddafi, con il quale aveva stipulato un patto di non aggressione, partecipando alla missione internazionale (tentando di non essere estromessa completamente dai propri interessi energetici ed economici) e bloccando il programma nucleare, cosa che può danneggiare molto anche la Francia ed altri potenziali fornitori.

Le recenti “rivelazioni” di Wikileaks (che rivelazioni non sono per chi si occupa del settore) hanno messo in evidenza come la politica energetica italiana, basata su una forte dipendenza dagli idrocarburi provenienti da paesi non graditi o considerati nemici da Washington, come la Russia, la Libia e l’Iran, preoccupi gli Stati Uniti e molti alleati. Il timore è ovviamente che l’Italia sia testa di ponte per gli interessi di questi paesi , usi ad utilizzare la leva energetica come arma politica, e diffonda in Europa questo ‘contagio’. Pesante palesamento di questo timore si ebbe nell’estate 2008 quando il mancato appoggio di molti paesi europei alla Georgia contro la Russia per i fatti dell’Ossezia, supporto che non mancò da parte di Washington, fecero intravedere a quest’ultima la concreta possibilità della Russia di utilizzare ’arma energetica per rendere meno compatto il fronte degli alleati europei, che nella visione di Washington devono privilegiare gli interessi americani anche a detrimento dei propri.

Per ragioni politiche contingenti questo atteggiamento destabilizzante degli equilibri energetici europei , nei cablo di WikiLeaks è attribuito a Berlusconi, ma è noto che i rapporti di ENI con i russi di Gazprom, con gli iraniani di NIOC ed i libici è ben precedente alla carriera politica di questi, che semmai vi ha sommato altri interessi personali. La preoccupazione per gli alleati è quindi la ‘politica’ dell’ENI ed è proprio l’ENI che deve essere indebolita per poter evitare il rischio che paesi potenziali antagonisti degli USA aumentino la propria influenza in Europa usando l’arma energetica. In Libia gli interessi ENI vengono fortemente scossi.

Pertanto se l’Italia, nella visione dei suoi principali alleati, deve ridurre la dipendenza energetica ed economica dai paesi ‘non graditi’ il nuovo programma nucleare italiano doveva essere intrapreso per compensare i minori flussi energetici ‘sgraditi’ a Washington. Tra l’altro tale programma, appunto per la mancanza di una filiera completa nazionale italiana, avrebbe interessato come fornitori, importanti settori industriali di alcuni nostri alleati. E’realistica la possibilità che, come nel precedente programma nucleare, l’Italia non decidesse di focalizzarsi su una filiera opportunamente selezionata in base a criteri tecnici ed economici, ma facesse contenti un po’ tutti i principali fornitori, francesi, americani, inglesi assegnando appalti un po’ a tutti per non scontentare nessuno. Un flusso di denaro dirottato dalle casse delle aziende energetiche di russi o libici verso le multinazionali dell’energia atomica.

Il programma nucleare del centrodestra doveva essere dunque un rassicurante impegno verso gli alleati. Anche il centrosinistra, pur contrario al nucleare, aveva appoggiato iniziative energetiche volte a rassicurare gli alleati, si tratta dei numerosi progetti di rigasificatori, che consentirebbero di ridurre o diluire le importazioni di gas dai soliti Russia e Libia. Ma entrambi i programmi sembrano essere in una fase morta. Di una dozzina dei previsti rigasificatori uno solo è stato effettivamente realizzato. Anche i rigasificatori, aprendo il mercato ad una più effettiva concorrenza, così come il programma nucleare (che ridurrebbe il consumo di gas per il settore termoelettrico) cozzano con gli interessi dell’ENI, maggior importatore di gas in Italia. Data la profonda influenza di ENI sulla politica italiana lo stop del programma nucleare potrebbe essere una delle contromosse dell’ENI? La partita è ancora in corso.

sabato, aprile 23, 2011

Buona Pasqua

Mentre proseguono nel paese riti millenari fatti di vie crucis, palme d'olivo, agnelli sacrificali, gite fuoriporta, riflettevo da laico sui significati della Pasqua, sfogliando le pagine profetiche dell'ultimo volume dei Meadows e Randers, intitolato "Limits to growth. The 30-Year Update", tradotto ancora una volta in maniera ignobile in italiano "I nuovi limiti dello sviluppo".
Improvvisamente, l'uovo simbolo della Pasqua mi è parso chiaramente un richiamo ai limiti di un pianeta finito contro la hybris distruttiva delle società consumistiche contemporanee.

Leggiamo dal libro: "Il superamento (dei limiti) dipende da ritardi nella retroazione. I decisori nel sistema non ricevono immediatamente informazioni sul superamento dei limiti, o non vi prestano fede, o non agiscono di conseguenza... In che modo dunque la società può capire se è già nella fase di superamento? Il calo degli stock di risorse e l'aumento dei livelli d'inquinamento sono i primi indizi." Ma ce ne sono altri. Tra questi:

"Gli investimenti in risorse umane (educazione, servizi sanitari, alloggi) vengono ridotti per soddisfare i bisogni di consumo immediato, di investimento o di sicurezza, o per pagare i debiti."

"I debiti ammontano a una percentuale crescente del prodotto annuo reale."

Subito la mia mente è andata alle tribolazioni dell'insegnante greca lette ieri sul giornale, a cui il governo ha ridotto lo stipendio a 890 euro. Viviamo tempi duri, ma non dobbiamo rinunciare alla speranza.

Auguri di Buona Pasqua







giovedì, aprile 21, 2011

Adda passà a nuttata

La notte dei rifuti napoletani sembra non passare mai.

Negli ultimi giorni, in alcune aree, si sono di nuovo accumulati i sacchetti della spazzatura accanto ai cassonetti, a dimostrazione che l’emergenza è ancora lontana dall’essere superata. Paradossalmente però, la gestione commissariale dei rifiuti è formalmente cessata il 31 Dicembre 2009 e tutte le competenze sono di nuovo passate alla Regione Campania e agli enti locali che negli ultimi anni hanno aggravato anziché risolvere il problema.

Per cercare di capire cosa sta succedendo ho scaricato da qui le nuove “Linee di Piano 2010 – 2013 per la gestione dei rifiuti urbani” approvate nel febbraio 2010 dalla Regione Campania.

La produzione stimata di rifiuti solidi urbani per il 2008 (ma considerata la crisi del 2009 e la leggera ripresa del 2010 il dato può essere considerato anche oggi attendibile) era di circa 2.700.000 tonnellate. La raccolta differenziata era di circa il 20% quindi, supponendo che i materiali differenziati siano tutti inviati correttamente al recupero, il rifiuto residuo da trattare negli impianti di smaltimento dovrebbe essere di circa 2.150.000 tonnellate.

Gli impianti autorizzati e/o operativi durante la precedente gestione commissariale erano l’inceneritore con recupero energetico di Acerra in Provincia di Napoli e le discariche di Chiaiano e Terzigno in Provincia di Napoli, San Tammaro in Provincia di Caserta, Macchia Soprana in Provincia di Salerno, Svignano Irpino in Provincia di Avellino, Sant’Arcangelo Trimonte in Provincia di Benevento. La capacità residua delle discariche attive è stimata in 5.415.000 tonnellate.

A questa capacità, va aggiunta quella dell’inceneritore, valutata potenzialmente in 600.000 tonnellate anno di frazione secca, ma consultando i dati disponibili sul sito dell’”Osservatorio Ambientale del Termovalizzatore di Acerra”, ci accorgiamo che questa potenzialità è per ora solo nominale perché quella effettiva (a causa di fermate e manutenzioni) è di circa 500.000 tonnellate. Nell’impianto viene incenerita la frazione secca dei rifiuti proveniente dagli impianti di selezione e tritovagliatura (ex CDR ora STIR), tre in Provincia di Napoli e uno ciascuno nelle altre province, con una capacità complessiva teorica di trattamento di circa 2.500.000 tonnellate.

Dall'insieme delle considerazioni precedenti, si può ricavare che essendo passato un anno dalla redazione del Piano, oggi la capacità residua di smaltimento in discarica si sia ridotta a circa 3.800.000 tonnellate, pari a poco più di un anno e mezzo di produzione.

L’auspicabile crescita delle raccolte differenziate potrebbe aumentare leggermente tale capacità, ma rimane il dato di una precaria situazione sul piano dello smaltimento finale. Basta poi che un qualsiasi motivo determini la chiusura anticipata di qualcuna delle discariche attive (come sta effettivamente succedendo in questi giorni) e il sistema entra di nuovo in crisi.

A proposito dell’inceneritore, a parte i dubbi e le indagini della Magistratura sul suo corretto funzionamento, le informazioni disponibili sul predetto sito per quanto riguarda la produzione energetica dell’ultimo anno (500 GWh) e la potenza elettrica installata, ci forniscono un dato, non trascurabile, superiore alle 4000 ore equivalenti di funzionamento.

Infine, c’è il problema assolutamente non marginale delle cosiddette “ecoballe”, ormai “mummificate” sui piazzali di conferimento in attesa di smaltimento. Si tratta di circa 8 milioni di tonnellate (di cui 3,5 Mton sotto sequestro giudiziario) il cui potere calorifico non è compatibile con l’inceneritore di Acerra, per cui andrebbe costruito un impianto specifico.

Per quanto riguarda le prospettive future, il Piano regionale prevede scenari di raccolta differenziata tra il 35% e il 65% (obiettivo di legge al 31/12/2012). Se consideriamo che la regione italiana più avanzata in materia di raccolta differenziata, il Veneto, è attualmente al 55%, che tale risultato è stato raggiunto dopo 5 – 6 anni di attivazione e affinamento del servizio di raccolta domiciliare e che a differenza di quella veneta la realtà territoriale campana è caratterizzata dalla presenza della grande area metropolitana Napoli – Caserta, ritengo che un obiettivo plausibile possa essere il 50% in tre anni. Però, come ho scritto altre volte, le competenze aziendali presenti sul territorio non paiono minimamente in condizione di supportare un sistema di gestione dei rifiuti fortemente orientato alla differenziazione spinta. Quindi occorrerebbe organizzare una specifica struttura commissariale che si avvalga delle migliori competenze nazionali in materia e implementare l’attuale insufficiente dotazione di impianti di compostaggio della frazione organica..

Considerando poi che per gli altri tre inceneritori previsti il Piano regionale evidenzia seri problemi di realizzazione che, come minimo, allungano notevolmente i tempi di costruzione, ed anche nell’ipotesi che divenissero concretamente praticabili gli smaltimenti ipotizzati ai cementifici o centrali termoelettriche della frazione secca prodotta, comunque residuerebbero 500.000 – 800.000 tonnellate di rifiuto trattato da smaltire.

Concludendo e sintetizzando, per superare l’attuale emergenza occorrono un forte impulso alle raccolte differenziate e un adeguamento del sistema impiantisco con nuovi impianti di compostaggio e discariche. Senza un impegno politico ed organizzativo adeguato da parte delle strutture pubbliche e un atteggiamento responsabile delle popolazioni locali, difficilmente si riuscirà a superare definitivamente la grave crisi dei rifiuti campani che tanto discredito ha prodotto al nostro paese.

martedì, aprile 19, 2011

La disfatta nucleare

La notizia dell’ultima ora riguarda l'abrogazione da parte del governo delle norme previste per la realizzazione di impianti nucleari nel Paese. Si tratta di un emendamento che recita: "Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare”.

Questo provvedimento, con ogni probabilità, impedirà di votare a giugno per lo specifico referendum abrogativo. I referendari hanno protestato non senza qualche ragione contro un’operazione politicamente spregiudicata che probabilmente ha anche l’obiettivo di depotenziare gli altri quesiti referendari, tra cui quello sul legittimo impedimento.

Ma si tratta in effetti di una vittoria su tutto il fronte del movimento antinucleare, in quanto non solo si supera la moratoria di un anno precedentemente stabilita, ma di fatto, rinviando sine die la decisione sulla scelta nucleare, questo governo, che al massimo ha solo due anni di legislatura davanti a sé, rinuncia definitivamente a una scelta energetica fino a pochi mesi fa ritenuta strategica per il paese.

Nella decisione hanno pesato sicuramente Fukushima, il probabile superamento del quorum al referendum certificato dai sondaggi, ma a mio parere anche una presa d’atto in alcuni settori del governo dell’impraticabilità economica e industriale del programma nucleare previsto.

Proprio oggi, il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, nel corso di una audizione al Parlamento europeo davanti alla Commissione Affari costituzionali ha affermato riguardo al nucleare, ''fatti tutti i conti dei costi e delle prospettive'' quello attuale è ''il momento per un passaggio storico, di ragionare su una versione applicata del vecchio e glorioso piano Delors: investire in piani di investimento per le ricerche alternative, anche combinandole con la nuova struttura geopolitica del Mediterraneo''. La questione del nucleare, ha insistito, ''occupa la lunga durata, non si ferma ai confini. Su questo il trattato è poco preciso. Credo che una riflessione economica e non solo tecnica sul nucleare debba essere fatta''

Questo ripensamento è probabilmente legato al sostanziale fallimento economico del nuovo reattore nucleare francese di terza generazione denominato EPR (Reattore Europeo ad acqua in Pressione) che il governo aveva adottato per il proprio programma nucleare, certificato dal raddoppio (per ora) dei costi preventivati di costruzione delle centrali di Olkiluoto in Finlandia e Flamanville in Francia, dai contenziosi in atto con i committenti anche in materia di sicurezza, dai tempi di costruzione lievitati rispetto a quelli programmati. Ma deve aver inciso anche un po’ il rischio emerso nella recente riunione dei Ministri economici di ripartire tra tutti gli Stati dell’Unione le enormi spese per lo smantellamento delle centrali nucleari europee (si parla di 130 miliardi di euro) che irresponsabilmente non sono state contabilizzate nei conti economici delle centrali esistenti.

sabato, aprile 16, 2011

Quanto ci guadagniamo con il fotovoltaico

Dopo i recenti provvedimenti governativi che hanno gettato nell'incertezza il settore delle rinnovabili nel nostro paese e mentre continua la messa in cassa integrazione di moltissimi lavoratori, si spera che il nuovo conto energia sul solare fotovoltaico in via di predisposizione ristabilisca un sistema incentivante sufficiente a far ripartire il mercato (ma le prime notizie che trapelano sono per niente tranquillizzanti).

Riprendiamo perciò l'attività di controinformazione avviata con gli 'articoli "Quanto ci costa l'incentivazione delle rinnovabili", "La Fukushima delle rinnovabili italiane", "Un consuntivo sulla produzione di energia eolica in Italia", affrontando un tema trascurato e sottaciuto, quello dei vantaggi e dei guadagni, diretti e indiretti che lo sviluppo delle energie rinnovabili può indurre nel sistema energetico ed economico italiano e che invece non vengono considerati da coloro che spesso ne sottolineano solo i costi per la comunità.

Tra questi possiamo sicuramente includere i vantaggi ambientali per il minor uso dei combustibili fossili, che si trasformano anche in minori spese per lo Stato grazie alla non applicazione di sanzioni europee per il mancato conseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, e soprattutto i risparmi economici per le minori importazioni di sempre più costose fonti fossili.

Ma l'aspetto più interessante è sicuramente quello legato ai possibili effetti positivi sul prezzo del kWh pagato dagli utenti nella bolletta. Nel caso del fotovoltaico, l'immissione nelle ore di maggiore richiesta di quantità sempre più crescenti di energia elettrica in sostituzione delle produzioni convenzionali, potrebbe incidere positivamente sul meccanismo di formazione dei prezzi finali, con sensibili riduzioni per gli utenti finali. Questo effetto è stato analizzato e valutato in alcuni recenti studi. Segnalo questo, sul quotidiano elettronico QualEnergia e un altro, disponibile integralmente sul sito di Aspoitalia, scritto da Francesco Meneguzzo. di cui riporto le conclusioni:

1) A partire da una potenza fotovoltaica installata di circa 1.000 MWp, questa inizia a incidere significativamente sul mercato elettrico, destrutturandolo sul lato dell’offerta e consentendo di spuntare prezzi più favorevoli;

2) Limitatamente al consumo domestico, 1.000 MWp di potenza fotovoltaica aggiuntiva si traducono in circa 500 milioni di Euro di minori costi annuali in bolletta, compensando o perfino superando l’aggravio di costi dovuto all’incentivazione della fonte fotovoltaica;

3) E’ verosimile che ulteriori aumenti del costo del petrolio possano portare a un aumento del valore marginale delle ulteriori installazioni fotovoltaiche in termini di riduzione relativa del costo della bolletta elettrica;

4) Estendendo l’analisi a tutto il mercato elettrico sul lato della domanda, cioè a un ambito oltre quattro volte più ampio del solo consumo domestico, è verosimile che i benefici, seppure relativamente minori grazie alla liberalizzazione del mercato, possano essere significativamente maggiori, configurando quindi l’espansione della generazione fotovoltaica quale efficace presidio a tutela anche della competitività delle imprese italiane.

venerdì, aprile 15, 2011

Le migrazioni e il futuro dell’Europa

Gli esodi di massa in corso, dai paesi africani in crisi alle coste italiane, hanno riproposto il tema della insufficiente integrazione delle politiche europee.

In effetti, pur considerando i gravi errori nella gestione dell’emergenza e la scarsa autorevolezza politica a livello internazionale dell’attuale governo italiano, è riemersa, riacutizzandosi, la tendenza degli stati europei a privilegiare la tutela degli interessi nazionali a scapito delle politiche comuni. In particolare, appare inaccettabile il comportamento della Francia, destinataria dei principali flussi di migranti provenienti da ex colonie di lingua e tradizioni francofone, che tenta di trasferire all’Italia compiti di gestione dell’emergenza che sono anche e soprattutto suoi.

Ma non c’è da illudersi che in futuro la situazione migliori. Infatti, il recente "Patto per l'euro" del Consiglio europeo ha definito vincoli sempre più stringenti in materia di disavanzo e debito pubblico e quindi di contenimento della spesa pubblica e ciò non favorirà certo un’inversione di tendenza, in particolare nelle politiche di accoglienza dei migranti.

Occorre pertanto affrontare una profonda riflessione sul futuro dell’Europa, senza baloccarsi con luoghi comuni e banalizzazioni del problema che si sentono echeggiare anche in questi giorni, quando si prospetta l’unione politica europea, come soluzione delle contraddizioni che stiamo vivendo e si glorificano i vantaggi del libero scambio di persone e cose.

Gli “Stati Uniti d’Europa” sono a mio parere poco più di una chimera. Troppe sono le differenze storiche, economiche, culturali, tra i membri dell’Unione europea. In particolare, la mancanza di una lingua comune, mi appare un ostacolo quasi insormontabile alla creazione di una nazione europea. L’inglese rappresenta sicuramente uno strumento di comunicazione efficace tra i popoli europei, ma è confinato prevalentemente dentro esigenze specialistiche o professionali e non ha le potenzialità per diventare una lingua nazionale. Né possono essere destinati al successo i tentativi artificiali di creare un nuovo idioma nazionale, come quello dell’esperanto proposto anni fa e naufragato miseramente.

Anche il regime del libero scambio difeso da molti economisti per affrontare a livello globale i problemi di integrazione economica, senza adeguate politiche regolatrici, rischia di aggravare da una parte i problemi politici e sociali e dall’altra di vanificare le politiche di sostenibilità ambientale delle produzioni, a causa del basso livello degli standard ecologici e sociali delle economie emergenti. A tale proposito, illuminanti sono le argomentazioni contro il libero scambio e per la difesa delle economie locali e nazionali nel libro “Un’economia per il bene comune” di Herman Daly e John Cobb.

A mio parere, la crisi delle risorse e la dinamica dei prezzi dei prodotti energetici imporranno sempre più la rivalutazione degli Stati nazionali come soggetti ottimali per la gestione della sostenibilità, attraverso politiche di riduzione dei consumi energetici e di autosufficienza alimentare. In questo quadro, il ruolo fondamentale dell’Unione europea potrà continuare ad operare nell’ambito dell’integrazione e coordinamento delle politiche economiche e sociali, come garanzia di cooperazione e stabilità politica e sociale.

mercoledì, aprile 13, 2011

L'ecologia al potere

Alle ultime elezioni regionali del Baden – Wuttemberg in Germania, i Verdi hanno raggiunto il 24,5% dei voti superando i socialdemocratici fermi al 23%. Molto probabilmente avranno la presidenza della Regione in un’alleanza rosso – verde che sostituirà al governo i cristiano democratici, in una loro storica roccaforte.

Un sondaggio svolto qualche giorno fa a livello nazionale, colloca addirittura al 28% i Verdi, che diventano il primo partito della sinistra, staccando i socialdemocratici al 23% e avvicinando i cristiani democratici della Merkel, in calo al 30%. Qualcuno attribuisce all’incidente di Fukushima questa espansione elettorale, ma la verità è che già da diversi mesi prima i sondaggisti rivelavano questa tendenza, che è stata solo leggermente rafforzata dal disastro delle centrali nucleari giapponesi.

Si tratta di un’evoluzione politica del sistema tedesco e forse europea, difficilmente immaginabile fino a pochi anni fa, che segnala un sensibile mutamento negli orientamenti profondi dell’opinione pubblica. Accompagnando questo mutamento, i grunen si sono trasformati da piccolo partito alternativo a moderno partito riformista di governo in grado di condizionare pesantemente le scelte ambientali ed energetiche del loro paese e non è da escludere la possibilità che nel prossimo futuro un ecologista guidi il governo di una delle maggiori potenze industriali del pianeta. La Germania è oggi leader mondiale nelle tecnologie ambientali ed è questo uno dei motivi della sua intensa e un po’ anomala crescita economica, nel quadro generale della crisi produttiva dei paesi industrializzati.

In questo breve spazio non è possibile affrontare in maniera completa le complesse motivazioni di questo interessante fenomeno socio – politico, pertanto mi limito a qualche breve spunto di riflessione.

I Verdi e la sensibilità ecologista hanno maggiore consenso in Europa, nell’Europa del Nord, nei paesi della tradizione riformista cristiana.

In Europa perché il consumismo non ha mai assunto le forme totalizzanti e ideologiche di altri paesi di storia più recente come gli Stati Uniti, e il concetto di limite è parte integrante del pensiero europeo di derivazione greco – romana.

Nell’Europa del Nord perché storicamente le popolazioni di quei paesi hanno sviluppato nel tempo una più marcata sensibilità al rapporto armonico tra uomo e natura.

Nei paesi del riformismo cristiano, perché dalle istanze profonde di quella tradizione culturale sono scaturite con maggiore forza la coscienza civile e la preminenza dell’interesse collettivo che sono la quintessenza del pensiero ecologico.

Ma non dobbiamo nemmeno nasconderci che le formazioni politiche ecologiste sono presenti e hanno successo nei paesi sviluppati (non mi risulta ad esempio che nel Burkina Faso esista un partito verde), come espressione di un elettorato ricco, opulento, che ha soddisfatto abbondantemente i bisogni primari ed è in grado di valutare le contraddizioni di un modello di sviluppo squilibrato nei confronti dell’ambiente. E questo potrebbe anche costituire un limite nei confronti di un futuro caratterizzato da una minore disponibilità di risorse e da una forzata decrescita economica.

I motivi profondi e strutturali enunciati in precedenza, sono a mio modo di vedere tra le principali cause dell’insuccesso in Italia e in molto paesi del Mediterraneo europeo delle formazioni politiche verdi. In questo articolo precedente ho esaminato le possibili cause della sostanziale scomparsa dal panorama politico dei Verdi italiani. tale marginalizzazione è anche il frutto della particolare configurazione politica del nostro paese, caratterizzata da un’eccessiva frammentazione politica del quadro politico, dalla storica presenza del più forte partito comunista dell’occidente, da un sistema di partiti che non riesce ancora ad assumere una connotazione moderna di tipo europeo.

Ma penso anche che il quadro politico italiano sia ancora in fase di assestamento dopo la crisi della prima Repubblica e la sua evoluzione potrebbe condurre abbastanza rapidamente a un’ulteriore semplificazione e modernizzazione del sistema politico e istituzionale. Ritengo perciò che ci potrebbero essere in futuro, anche in Italia, le condizioni per una presenza non minoritaria di un partito ecologista autonomo dai partiti tradizionali.

lunedì, aprile 11, 2011

Prezzi del petrolio e trasporto delle merci in Italia

In Italia il 65% delle merci trasportate all’interno dei confini nazionali avviene attraverso il trasporto su strada.

Nel grafico allegato, possiamo osservare la ripartizione per categoria di trasporto dei consumi di gasolio per autotrazione, da cui possiamo ricavare la percentuale relativa al trasporto merci (veicoli commerciali leggeri + veicoli industriali) rispetto al totale dei consumi finali di carburante nel 2009 (35889 kton), pari a circa il 39%.

Considerando che la strada in Italia assorbe circa l’88% dei consumi finali di energia dei trasporti, e che quest’ultimi rappresentano circa il 32% dei consumi finali di energia, il contributo del trasporto merci su gomma al bilancio energetico nazionale si può valutare in circa l’11%.

Sebbene si tratti di una quota minoritaria dei consumi energetici complessivi, essa però assume un valore sociale strategico in rapporto al funzionamento della filiera industriale e dei consumi. Tutti abbiamo nella mente la protesta degli autotrasportatori che chiedevano la protezione dello Stato dai prezzi del gasolio, arrivati a livelli insostenibili sulla spinta delle quotazioni del petrolio in apparente crescita inarrestabile. Si giunse quasi alla paralisi del paese e, proprio mentre nei supermercati cominciavano a scarseggiare le merci, sopraggiunse un accordo tra governo e associazioni di categoria che sbloccò un probabile collasso dell’economia. Poi, la successiva crisi finanziaria ed economica determinò un crollo dei prezzi del barile e tutto parve tornare alla normalità.

Oggi ci troviamo ancora in una situazione strutturalmente analoga. I prezzi, che hanno superato i 110 dollari per il barile del WTI e i 120 per quello del Brent, sono leggermente più bassi del picco raggiunto nel 2008, di 140 dollari. Però ora i prezzi dei carburanti hanno anche superato i valori che avevano indotto i camionisti a scendere allora in sciopero. Eppure, non assistiamo ancora alle stesse proteste e rivendicazioni.

Il motivo è facile da spiegare. In seguito alle condizioni favorevoli di cui godono, gli autotrasportatori hanno diritto a un rimborso sull’accisa pari a circa il 20 per mille, e la totale detrazione dell’IVA. Secondo le ultime rilevazioni dell’Osservatorio sulle attività di autotrasporto, oggi un litro di gasolio costa 1,107 €. Inoltre gli importi spesi dalle aziende di autotrasporto delle merci per l’acquisto dei carburanti sono deducibili dalla denuncia dei redditi. Di fatto è come se lo Stato avesse operato una parziale nazionalizzazione di un servizio di interesse pubblico.

Ma, nonostante tutto, si cominciano ad avvertire isolate ma nuove proteste pervenire dal variegato mondo degli autotrasportatori, a segnalare evidentemente che nemmeno queste condizioni favorevoli, oltre certi livelli dei prezzi petroliferi, sono sufficienti a garantire la redditività del servizio.

Incrociamo le dita, perché il prezzo del barile, sulla spinta della crescita economica globale in corso e delle crisi politiche in alcuni paesi produttori, continua il suo lento ma costante avvicinamento ai picchi del 2008.

venerdì, aprile 08, 2011

Un approccio politico alla questione nucleare

In questi giorni di apprensione per le note vicende giapponesi, la linea prevalente di opposizione all’uso dell’energia nucleare è quella di sottolinearne i rischi sanitari connessi alle emissioni radioattive conseguenti a gravi incidenti, che la breve storia dell’industria nucleare ha dimostrato più probabili di quanto si volesse far credere.

Non è che questo approccio sia sbagliato, per carità, è giusto far riflettere l’opinione pubblica sulle possibili incontrollabili conseguenze del ricorso al nucleare, soprattutto con l’approssimarsi di un momento decisionale importante come quello del referendum abrogativo che si svolgerà in Italia a Giugno. Però ritengo che bisognerebbe fare una riflessione più approfondita e più a lungo termine.

Siamo proprio certi che l’atteggiamento prevalente nell’elettorato sarà costantemente di rifiuto della tecnologia nucleare, per timore dei rischi alla salute? L’esperienza concreta ci induce a credere che non è così scontato. Prendiamo il caso della mobilità: si tratta di un’attività umana tra le più rischiose a livello sanitario. Tutti sono consapevoli degli spaventosi livelli di mortalità e morbilità connessi all’uso dell’automobile, sia a causa degli incidenti stradali che dell’inquinamento atmosferico. Eppure la gravità del rischio ha un grado elevato di accettabilità sociale, rispetto ad altre attività con impatti sanitari molto inferiori.

Evidentemente, a livello subliminale le masse consumistiche hanno interiorizzato, a torto o a ragione (secondo me a torto), la convinzione che il rischio sanitario sia ampiamente compensato da altri vantaggi e comodità. In altre parole, non è automatico che l’eventualità di un danno sanitario collegato ad un’attività umana sia un fattore escludente, ma ciò discende solo da un processo mentale di bilanciamento dei suoi costi e benefici. A livello generale, ciò corrisponde alla convinzione, più diffusa di quanto si creda nelle società occidentali, che l’inquinamento ambientale sia il prezzo da pagare al benessere e al progresso.

Quindi, nulla può escludere che, quando la disponibilità di risorse energetiche sarà sempre più scarsa e determinerà forzatamente un minore uso delle tecnologie che rendono tanto comoda la nostra vita, la maggioranza dell'opinione pubblica si orienterà favorevolmente all’uso del nucleare. E noi, “adoratori del picco” sappiamo benissimo che questo momento è molto più vicino di quanto comunemente si pensi.

Allora, un’opposizione più efficace all’energia nucleare attualmente non può che essere fondata sull’analisi dei rischi industriali del suo uso, principalmente collegati ai costi di produzione e alla disponibilità mondiale di risorse minerarie di uranio.

Ma anche l’argomento della non competitività economica della tecnologia nucleare può valere solo in una situazione di agevole disponibilità di alternative energetiche. In una situazione di scarsità, nulla potrebbe impedire per motivi strategici agli Stati nazionali di sovvenzionare l’industria nucleare per rendere più conveniente l’investimento dei privati.

Quindi, l’unico limite veramente insuperabile dell’energia nucleare, almeno nella versione tecnologica attuale, è la consistenza delle risorse di uranio e l’argomento più efficace contro i progetti di costruzione di nuove centrali è a mio parere il rischio, più volte discusso su queste pagine elettroniche, di indisponibilità del combustibile durante il loro ciclo di vita.

mercoledì, aprile 06, 2011

Un consuntivo sulla produzione di energia eolica in Italia

E’ ora di riparlare un po’ di energia eolica, prendendo spunto dai continui errori di Mario Pirani e dai dati provvisori per il 2010 di Terna S.p.A.

Il noto giornalista si è di recente mostrato indignato, sulle pagine di Repubblica, perché qualcuno lo ha accusato (giustamente, secondo me) di essere contemporaneamente contrario al nucleare e alle rinnovabili, con una particolare ostilità all’eolico.

Stavolta Pirani abbandona alcune delle insostenibili panzane avanzate in passato per legittimare la sua opposizione all’eolico, puntualmente da noi denunciate in questo precedente articolo. Ma le sostituisce con altre argomentazioni opinabili o errate che continuano a dimostrare solo uno scarso approfondimento della tematica. Rispetto ad altri Paesi, “da noi i venti sono assai meno impetuosi ed hanno finora dato prova di poter spirare come dolci zefiri per 1252 ore/anno in rapporto alla potenza installata”, afferma con sicumera Pirani.

Basta fare due conti per vedere che questa affermazione è sbagliata. Nelle tabelle allegate ho calcolato il numero di ore equivalenti di funzionamento dell’eolico italiano a partire dai dati ufficiali di Terna S.p.A. Ho spiegato più volte su queste pagine elettroniche, che non è possibile ottenere il dato preciso di questo parametro, ma solo un intervallo compreso tra un valore minimo e uno massimo. Questo perché il calcolo delle ore equivalenti dovrebbe considerare frazioni di potenza installata per gli impianti entrati in funzione durante l’anno considerato, dato purtroppo non conosciuto. Però, dividendo la produzione di energia eolica in un determinato anno, prima per la potenza efficiente lorda dello stesso anno e poi per quella dell’anno precedente, si ottiene rispettivamente il valore delle ore equivalenti nell’ipotesi minima di entrata in funzione di tutti i nuovi impianti all’inizio dell’anno e nell’ipotesi massima di entrata in funzione alla fine dell’anno. Per cui l’effettivo valore si collocherà sicuramente all’interno di tale intervallo.

Come si può osservare facilmente, in nessuno degli anni presi in considerazione il valore minimo di ore equivalenti corrisponde a quello indicato da Pirani e, guardando soprattutto l’andamento degli ultimi tre anni, si può agevolmente stimare un valore effettivo compreso tra 1500 e 1600 ore equivalenti. Ma c’è di più. Se si volessero conseguire le 2000 ore equivalenti considerate economicamente accettabili da Pirani (e questa volta sono d’accordo con lui), bisognerebbe modificare il regime di incentivazione assegnando i certificati verdi, ai siti più ventosi, come i crinali delle colline italiane che invece egli vorrebbe integralmente proteggere in difesa del paesaggio.

Abbandoniamo perciò le incongruenze giornalistiche del Pirani, per soffermarci sull’analisi della crescita delle installazioni eoliche nel nostro paese che, con una potenza istallata al 2010 di circa 6000 MW, comincia ad assumere un peso non marginale nella produzione di energia elettrica nazionale (2,5% del Consumo Interno Lordo).

Ma le potenzialità da sviluppare sono ancora notevoli. Come abbiamo segnalato qui, c’è spazio in Italia per almeno altri 10.000 MW di nuova potenza eolica che, con l’attuale fattore di carico di 1500 – 1600 ore equivalenti garantirebbero altri 15 – 16 TWh di produzione elettrica, che sommati agli attuali 8,5 TWh ci darebbero circa il 7% del Consumo Interno Lordo. Che diventerebbe circa l’8,5% se riuscissimo a installare i futuri impianti in siti mediamente da 2000 ore equivalenti. Incrementando inoltre la produzione fotovoltaica e da biomasse, si potrebbe tranquillamente conseguire quel 12% - 13% ipoteticamente producibile dal nuovo programma nucleare del governo italiano.

Infine, un breve confronto con i paesi leader del settore, Germania e Spagna. La Germania ha 36.500 GWh di produzione nel 2010, e un valore delle ore equivalenti molto vicino a quello italiano, inoltre da qualche anno, nonostante la crescita delle installazioni, la produzione è in calo (probabilmente cominciano ad avere problemi di connessione con la rete elettrica). La Spagna è un caso eccezionale sotto tutti i punti di vista: ha una produzione nel 2010 di quasi 43.000 GWh, circa 2200 ore equivalenti di funzionamento e per ora non sembrano emergere problemi di compatibilità con il sistema elettrico nazionale (un’analisi interessante del “caso” spagnolo potete leggerla qui).

lunedì, aprile 04, 2011

Il Consumo Interno Lordo di energia elettrica italiano nel 2010

Il grafico che vedete qui accanto rappresenta la suddivisione per fonte del Consumo Interno Lordo di Energia Elettrica in Italia nel 2010 sulla base dei dati provvisori forniti sul sito di Terna s.p.a..

Innanzitutto, preciso quali assunzioni nell’aggregazione dei dati Terna sono alla base delle mie elaborazioni:

1) Il Consumo Interno Lordo (la somma della produzione nazionale lorda e del saldo con l’estero) è considerato al lordo dei pompaggi, cioè quella quota di produzione idroelettrica che si ottiene pompando durante le ore notturne di minore richiesta negli invasi idroelettrici una parte delle acque di valle da utilizzare nei momenti di picco dei consumi elettrici. I dati storici italiani del Consumo Interno Lordo, disponibili sempre sul sito di Terna, sono costruiti su questa assunzione. Per questo motivo, anche se da qualche anno (per motivi legati a sistemi di rendicontazione europei) i documenti di Terna fanno riferimento al Consumo Interno Lordo al netto dei pompaggi, ho ritenuto di operare in continuità con le mie elaborazioni precedenti.

2) Per questo motivo, la quota di rinnovabili da me calcolata, 22,9% è leggermente più alta di quella indicata da Terna in 22,2%. La differenza è proprio l’energia ricavata tramite pompaggi.

3) La quota di produzione termoelettrica da gas naturale è ottenuta considerando anche i derivati del gas naturale.

Rispetto al crollo verificatosi dal 2008 al 2009 (articolo consultabile qui), c’è stata una lieve ripresa dei consumi. Infatti, dai 337,6 TWh si passa ai 342,1 TWh (+1,4%). Nel dettaglio, continua la tendenza verso una sempre più marginale (3,2%) dipendenza dal petrolio della produzione termoelettrica, la conferma del ricorso al gas naturale come principale fonte di produzione termoelettrica, e un'ulteriore crescita del peso delle rinnovabili (+1,1%). Abbiamo infine un contributo stabile dei combustibili solidi (carbone) e del saldo tra import ed export.

Il sensibile aumento del peso delle rinnovabili è determinato da una leggera crescita della produzione idroelettrica, e da una crescita sostenuta dell’eolico, da 6543 GWh a 8499 GWh (+ 30%). Infine si registra un’esplosione relativa dell’energia fotovoltaica, da 676 a 1600 GWh (+ 137%).

sabato, aprile 02, 2011

Germania uber alles?

Uno degli argomenti più usati dagli ecologisti italiani per perorare la causa delle rinnovabili, ferocemente contrastata dalla strategia nuclearista del governo Berlusconi, è il confronto con le politiche energetiche del colosso industriale tedesco che ha programmato di raggiungere, nel 2050, l’80% di produzione di energia elettrica con le rinnovabili. Inoltre, oggi la Germania è non solo leader nel settore dell’eolico, ma anche in quello del solare. Che vergogna per il Paese del Sole! E in effetti, la Germania nel 2009 ha avuto una produzione di energia eolica più di sei volte di quella italiana e una produzione di energia fotovoltaica tre volte e mezza quella nostra.

Ma, forse per la ventata di sano patriottismo del 150° anniversario, ho pensato che sarebbe giusto ridimensionare questo primato e un po’ rivalutare il nostro tanto bistrattato paese.

Innanzitutto, dobbiamo considerare che il valore assoluto della produzione energetica rinnovabile ha poco senso, mentre ne ha molto di più la percentuale rispetto alla produzione totale, quest’ultima in Germania molto più alta di quella italiana. E infatti, andando a vedere i confronti internazionali presenti sul sito dell'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas, registriamo questo primo dato per la produzione lorda di energia elettrica: Germania 593 TWh, Italia 290 TWh. Quindi il vantaggio dei tedeschi nel settore delle rinnovabili in termini percentuali è più che dimezzato rispetto ai valori assoluti (per l’eolico 6,34% contro il 2,1% italiano, per il solare 0,95% contro lo 0,57% italiano). Sicuramente si tratta ancora di un distacco sensibile, ma colmabile facilmente se il positivo trend di crescita delle rinnovabili nazionali innescato negli ultimi anni non venisse compromesso definitivamente dagli attuali sciagurati amministratori.

Se infine approfondiamo il confronto energetico sul totale dell’energia rinnovabile prodotta dai due paesi (escluse le biomasse, ma cambia poco), allora viene quasi voglia di sventolare il tricolore. L’Italia letteralmente surclassa la Germania con un confortante 22,14% contro un misero 11,60%, grazie all’apporto determinante dell’energia idroelettrica (17,62%). Non molti evidenziano sufficientemente una delle peculiarità tipiche del nostro paese, al pari secondo me dell’arte, della pizza e del bel canto: le grandi centrali idroelettriche, che sono state all’inizio del secolo scorso il vero motore della prima crescita economica e civile del nostro paese e che hanno rappresentato fino agli anni ’60 (come si può vedere nel grafico di questo mio articolo) la forma prevalente di produzione di energia elettrica.

Nel grafico allegato in alto, abbiamo la possibilità di sintetizzare visivamente il confronto descritto in precedenza, anche con altri Stati europei. Certo, l’Italia continua ad avere il pesante primato negativo della produzione termoelettrica. Ma di questo parleremo prossimamente.