giovedì, luglio 29, 2010

L'eolico e i certificati verdi


Uno degli argomenti usati da alcuni ambientalisti ad oltranza contro l’eolico è la presunta marginalità di questa fonte rispetto al fabbisogno energetico italiano. Si tratta di un argomento molto capzioso, perché la marginalità è un concetto alquanto relativo. Come ho scritto in questo mio articolo, una potenzialità eolica del 7%-8% del consumo interno lordo di energia elettrica è sicuramente marginale in valore assoluto, ma lo è molto meno nel quadro degli scenari energetici futuri del nostro paese, considerando che la piena utilizzazione di tale potenzialità permetterebbe di sostituire interamente il petrolio usato per la produzione di energia elettrica, senza costruire nuove centrali a carbone o nucleari. Se poi, come ho scritto in quest’altro articolo, si assumesse il dato di Terna pari a 15.000 MW di potenzialità eolica in Italia compatibile con i limiti di immissione in rete dovuti all’intermittenza della fonte e un dato medio di ore equivalente di produzione di 2000 ore, addirittura la produzione di energia eolica sviluppabile sarebbe di poco inferiore a quella prevista nel programma nucleare del governo per i 4 impianti nucleari da 1600 MW, ma con il vantaggio di tempi di esecuzione notevolmente più rapidi e certi.
Quindi la domanda a cui dovrebbero decidere di rispondere gli ambientalisti ad oltranza e tutti gli oppositori dell’eolico è: “Siete favorevoli al nucleare o al carbone, inconsapevolmente o in cattiva fede?
Un altro argomento capzioso usato dagli ambientalisti ad oltranza è quello di un presunto eccesso di incentivazione a favore dell’eolico. Questo argomento è diventato di recente anche un deciso cavallo di battaglia di alcune autorevoli personalità nazionali come il giornalista di Repubblica Mario Pirani e la radicale Emma Bonino, che hanno osannato il Ministro Tremonti per aver eliminato, con l’art. 45 della manovra economica, l’obbligo da parte del GSE di ritirare a un prezzo fisso i certificati verdi in eccesso rispetto alla domanda di mercato.
In particolare, in un recente articolo, il giornalista ha scritto che i certificati verdi “li acquistavano le industrie inquinanti, a cominciare da alcuni petrolieri, che in tal modo «ripagavano» le multe che altrimenti avrebbero dovuto sborsare per non aver ancora ottemperato all' obbligo di risanare le produzioni, figurando virtualmente come produttori di energia verde senza in realtà procedere alla svolta ecologica reale. Gli accordi internazionali obbligano infatti l'Italia a raggiungere la quota del 25% di produzione energetica da fonti rinnovabili, salvo pagamento di salate sanzioni. In definitiva i «palazzinari del vento» avevano convenienza a costruire torri eoliche anche dove non spira un alito di brezza e gli inquinatori trovavano una facile scappatoia per continuare ad avvelenare l' ambiente. Il tutto scaricato sulle bollette.”
Si tratta di una ricostruzione del meccanismo di incentivazione inesatta e demagogica.
In effetti, l’art. 11 del D.Lgs. 79/1999 ha introdotto l’obbligo, a carico dei produttori e degli importatori di energia elettrica prodotta da fonti non rinnovabili, di immettere nel sistema elettrico nazionale, a decorrere dal 2002, una quota minima di energia elettrica, gradualmente sempre più elevata, prodotta da impianti alimentati a fonti rinnovabili, e non si capisce perché Pirani si opponga a un giusto meccanismo orientato a far pagare ai produttori da fonti convenzionali lo sviluppo delle rinnovabili. Che poi questo obbligo venga assolto direttamente o acquistando certificati verdi dai produttori di energia eolica o altra rinnovabile, non mi pare che cambi sostanzialmente il perseguimento di un giusto obiettivo. Quanto alla affermazione sulla convenienza a costruire impianti eolici in assenza di vento, mi pare denoti una scarsa conoscenza del meccanismo incentivante. Il kWh eolico è attualmente remunerato da due componenti: il valore dei certificati verdi venduti e la valorizzazione dell’energia immessa in rete, entrambi dipendenti dall’energia effettivamente prodotta, per cui non si capisce come un imprenditore possa trovare conveniente investire in impianti che non producano energia.
Il fatto che le obiezioni siano in larga parte infondate, non deve però evitarci di individuare i punti deboli del sistema dei certificati verdi per cercare di correggerli, invece di smantellare l’intero meccanismo incentivante, come vorrebbero gli oppositori dell’eolico.
Attualmente il prezzo di base per la contrattazione nel mercato dei certificati verdi è dato da 180 €/ MWh meno il valore medio annuo del prezzo di cessione dell’energia elettrica nell’anno precedente, il risultato della differenza è circa 100 – 110 €/MWh. Ma siccome in poco tempo l’offerta ha superato abbondantemente la domanda di certificati verdi, questi prezzi sono diminuiti, costringendo il legislatore a introdurre il meccanismo di ritiro dei certificati invenduti da parte del GSE. Il problema si può in parte superare, senza l’eliminazione di questa ciambella di salvataggio che deprimerebbe sensibilmente gli investimenti del settore, aumentando la quota d’obbligo di rinnovabili dei produttori di energia.
Se al valore dei certificati verdi, si aggiunge poi il corrispettivo per la vendita dell’energia eolica prodotta, il kWh eolico ha oggi una remunerazione comunque oscillante tra i 15 – 20 cent.€, più del doppio del costo di produzione. Questo spiega la vivacità del settore, ma anche il fatto che si rendono in questo modo convenienti siti con ventosità relativamente basse e ciò impedisce in prospettiva di massimizzare il contributo dell’energia eolica alla produzione nazionale. Come ho già detto in altre occasioni, la soluzione a questo problema potrebbe essere la graduazione del valore dei certificati in funzione delle ore equivalenti di produzione, privilegiando i siti più ventosi.

lunedì, luglio 26, 2010

Uranio: quanto ne resta nelle bombe nucleari?

Al momento, la fornitura di uranio per le centrali nucleari è assicurata per una frazione molto importante (almeno il 30%) dallo smantellamento di vecchie testate nucleari. In questo post discuto brevemente la situazione della produzione di uranio minerale e il ruolo di quello ottenuto dalle testate atomiche. Il risultato è che entro pochi anni avremo finito le bombe; cosa buona di per se, ma dovremo basarci completamente sull'uranio minerale; cosa per niente ovvia.


La firma del trattato SALT-II fra Russia e Stati Uniti per la riduzione degli armamenti nucleari è passata quasi inosservata. Una volta, questi trattati erano una cosa difficilissima - ci ricordiamo forse delle estenuanti trattative fra Reagan e Gorbaciov negli anni '80. Oggi, certamente, la situazione politica è cambiata enormemente dai tempi dell'Unione Sovietica ma - al tempo stesso - le relazioni fra USA e Russia non sono certamente rose e fiori, come si è visto al tempo della crisi della Georgia.

Allora, potrebbe darsi che almeno uno degli elementi che hanno facilitato la firma del trattato SALT-II è stata la necessità di utilizzare l'uranio contenuto nelle armi nucleari per fornire combustibile alle centrali. Quanto questo uranio sia vitale oggi, ve lo faccio vedere nel diagramma seguente (da un recente rapporto (Settembre 2009) di ABARE, un'agenzia del governo Australiano)



Come si vede, la produzione di uranio minerale sta mostrando una certa ripresa, come pure i consumi. La tendenza è debole e non è ancora sufficiente a chiudere la forbice con i consumi. Al momento, possiamo stimare la differenza come circa 20.000 tonnellate all'anno, ovvero circa il 30% della produzione totale.

Quindi, il ruolo dell'uranio da testate nucleari rimane vitale nella situazione attuale. Quanto potrà durare? Su questo punto, possiamo fare un piccolo calcolo. Il totale delle bombe atomiche costruite da Russia e Stati Uniti insieme, secondo wikipedia, ha raggiunto qualcosa come 70.000 unità negli anni 1980 (!!). La maggior parte di queste bombe sono state smantellate. Del fato di alcune di queste bombe, possiamo leggere qualcosa sul sito http://www.world-nuclear.org/info/inf13.html . Troviamo che ci sono volute 15.000 bombe atomiche Russe per generare 375 tonnellate di uranio ad alto arricchimento. Questo uranio è stato poi trasformato in uranio a basso arricchimento (buono per le centrali) per un totale di circa 11.000 tonnellate. Dai dati riportati, sembra di poter dedurre che questa quantità è equivalente a circa 100.000 tonnellate di uranio minerale. Non è una quantità enorme; a guardare il grafico della produzione, si vede che la differenza fra la produzione e il consumo è stata ben oltre alle 20.000 tonnellate per una buona ventina di anni. In effetti, da questi dati sembra chiaro che la maggioranza delle 70.000 bombe atomiche accumulate negli arsenali militari durante la guerra fredda sono state utilizzate come combustibile nelle centrali. Spade trasformate in aratri, certamente, ma cosa ci rimane oggi?

Oggi, rimangono circa 6000 testate nucleari negli Stati Uniti, mentre pare che la Russia ne abbia un po' meno di 3000. Secondo l'ultimo trattato SALT, dovrebbero essere limitate a circa 1500 in totale, il che vuol dire che si potranno smantellare circa 7000 testate. Fatti i dovuti conti, queste testate corrispondono a circa 50.000 tonnellate di uranio minerale. Se il gap rimane come è oggi, ovvero intorno alle 20.000 tonnellate, non c'è proprio da scialare. Entro pochi anni, le bombe nucleari saranno finite. Da quel momento dovremo dipendere unicamente dalle risorse minerali per l'uranio per le centrali nucleari.


Come abbiamo visto nella figura precedente, la produzione di uranio minerale è in ripresa e non è impossibile che in qualche anno arrivi a pareggiare il livello dei consumi attuali. Ma, se pensiamo in termini di un'espansione della produzione di energia nucleare, allora le cose si fanno enormemente difficili e la scarsità di uranio minerale mette dei limiti evidenti alla possibilità di aumentare il numero di centrali nel mondo.

Come nel caso del petrolio, la situazione dell'energia nucleare è complessa e le predizioni difficili. L'unica cosa sicura è che anche l'uranio è una risorsa finita e che dobbiamo cominciare a tenerne conto.

  
 ______________________________________________________

Per curiosità, vediamo qui la situazione dei prezzi dell'Uranio, sempre dal rapporto ABARE (Settembre 2009) del governo Australiano. Il picco nettissimo è arrivato nel Luglio del 2007, seguito poi da un declino e da una nuova, recente, inversione di tendenza.



Il picco dei prezzi dell'uranio, quindi, è avvenuto un anno prima di quello del petrolio. E' probabile che l'uranio abbia comunque risentito della "bolla" economica in corso fino al 2008, come pure del collasso economico che ne è seguito. E' anche possibile che gli operatori si siano fatti influenzare dall'allagamento della miniera di Cigar Lake, in Canada, nel 2006. Questa miniera dovrebbe rappresentare una delle principali sorgenti future di uranio, ma per il momento rimane allagata e non produce niente. A parte Cigar Lake, comunque, non sembra che i prezzi ci dicano molto sull'effettiva disponibilità di uranio minerale.

venerdì, luglio 23, 2010

La spesa pubblica dopo il picco del petrolio

Di recente ho scritto qui un articolo, che richiama anche alcuni miei approfondimenti precedenti, in merito ai tagli al trasporto pubblico locale operati dal governo.
Devo dire che non mi hanno convinto del tutto i contenuti della successiva protesta contro la manovra economica. Se, da un parte, è corretta la critica all'iniquità della manovra, che chiede sacrifici alle solite categorie sociali, senza coinvolgere adeguatamente i ceti più abbienti e affrontare seriamente la vera piaga economica del nostro paese, il lavoro sommerso e l’evasione fiscale, non è più possibile pensare, in un quadro di risorse pubbliche sempre più scarse e di esigenze improcrastinabili di risanamento dei conti pubblici, a un meccanismo della spesa pubblica svincolato da criteri di efficienza. Il caso del trasporto pubblico locale è eclatante. Lo Stato da decenni investe ingenti risorse pubbliche per finanziare un sistema estremamente inefficiente sul piano economico e della qualità del servizio. Ora tutti si lamentano per i tagli ai servizi che dovranno essere applicati in seguito alla manovra, ma nessuno in passato ha mai messo in discussione il finanziamento di questi carrozzoni pubblici improduttivi, forse illudendosi che ci sarebbe stato sempre qualcuno che ne avrebbe occultato i deficit.
Quindi, le Regioni, più che minacciare improbabili restituzioni di deleghe al governo centrale, che a sua volta ha spezzato il fronte facendo accordi con Comuni e Province, dovrebbero chiedere allo Stato investimenti in conto capitale per modificare radicalmente la struttura del trasporto pubblico, attraverso una riconversione dalla gomma al ferro.
Ma come si fa a sostenere un piano di riconversione di questa portata in un periodo di risorse economiche sempre più scarse? Ci viene in aiuto un corretto approccio ecologista al problema. In un mio precedente articolo, ho delineato un programma decennale di costruzione di 100 tranvie per 1000 km di nuove linee in Italia. Per finanziarlo, ho calcolato che basterebbe aumentare le accise sui carburanti di appena 3 centesimi al litro, seguendo il principio di compensare parzialmente i costi esterni della mobilità privata a favore di quella collettiva. Naturalmente, questo valore potrebbe anche diminuire utilizzando allo scopo i finanziamenti di molti progetti autostradali inutili tra cui il ponte sullo stretto e adottando sistemi di gara che coinvolgano nel finanziamento gli aggiudicatari, come il project financing.
Come ho scritto in precedenza, l’era del post picco segnerà una forte discontinuità rispetto alle principali culture economiche e politiche del ‘900, tutte orientate a promuovere la crescita dei consumi e della produzione attraverso l’espansione costante dell’economia e della spesa pubblica. Ma paradossalmente, l'aumento continuo del debito pubblico può funzionare solo in presenza di un'inesausta espansione economica che lo finanzi. In un periodo di cronica recessione come appare l'attuale, gli Stati rischiano di fallire e con essi lo Stato sociale. Quindi, in una società ecologica di tipo stazionario, occorrerebbe ripensare profondamente ai criteri della spesa sociale, orientandoli all'efficienza e all'efficacia degli investimenti.

mercoledì, luglio 21, 2010

Petrolio: sembra confermato il picco nel 2008


Gli ultimi dati sulla produzione petrolifera, da Rembrandt Koppelaar (cliccare per ingrandire)


Gli ultimi dati sulla produzione petrolifera sembrano confermare che il picco del petrolio, inteso come picco di produzione di energia fossile, è stato nel 2008. La tendenza all'aumento della produzione che era iniziata nel 2009 si è interrotta ben prima di raggiungere di nuovo il massimo di quasi 88 milioni di barili al giorno che si era visto nel Luglio del 2008. 

La tendenza è ancora più evidente se guardiamo i dati depurati dai biocombustibili (figura a destra). E' sensato non considerare i biocombustibili perché si tratta principalmente di bioetanolo prodotto con sussidi sia finanziari sia energetici. In sostanza, per fare bioetanolo bisogna consumare quasi altrettanta energia dai fossili di quanta poi se ne ricava (e, secondo alcuni, un po' di più). Quindi, i biocombustibili sono una perdita netta e non andrebbero contati.

Rimane da discutere l'ultimo dato dell'IEA, che indica che la capacità produttiva mondiale è in aumento, nonostante la stasi della produzione. Questo dato va preso con molta cautela: i dati sulla produzione sono reali e verificabili, quelli sulla "produttività" molto meno. Ma è probabile, in effetti, che esista una certa capacità produttiva che non viene sfruttata. E' tutto parte del gioco della domanda e dell'offerta che fa si che ci si mantenga su questo equilibrio precario di stasi produttiva. In effetti, non inizieremo la discesa fino a che non avremo esaurito questo divario fra capacità produttiva e produzione.

lunedì, luglio 19, 2010

Un pozzo di petrolio “rovesciato”



Uno zoom sui pannelli termici (affiancati al FV) che ho messo sul tetto di casa mia.
Semplici soluzioni che accomunano tanti lettori del blog


La questione del picco del petrolio e degli idrocarburi in genere (HC) è, per sua natura, molto difficile da afferrare in tutte le sue molteplici implicazioni.

Da una parte, i media sparano qua e là notizie di nuovi giacimenti giganti (soprattutto in Brasile e al Polo Nord), di tecnologie innovative di estrazione a resa elevata, di ingenti riserve di petrolio non convenzionale (scisti bituminosi canadesi); dall’altra, ASPO ed altri think tank indipendenti cercano di informare la comunità, scientifica e non, dell'imminenza del peak oil e della delicatezza di questa transizione verso una società a basso consumo (vedere la recente lettera alle amministrazioni regionali).
Tra l'altro, il recente incidente alla piattaforma off-shore della BP è un chiaro indicatore del proliferare di punti di estrazione che vanno ad avventurarsi in zone sempre più estreme, tanta è la fame di greggio; questo argomento è stato eccellentemente esposto in questo pezzo pubblicato da Debora Billi su Petrolio.

Secondo la nostra associazione, il grow up di un’infrastruttura rinnovabile delocalizzata e diversificata (privilegiando le "attitudini" del territorio per estrarre il massimo EROEI dalle nuove tecnologie più promettenti) è estremamente urgente; del resto, gli indicatori macroeconomici sono sempre più chiari, e il loro andamento non può essere imputato a una “cattiva gestione estemporanea dei fondamentali dell’economia” da parte di pochi, sprovveduti enti responsabili.
Quando si parla di disoccupazione diffusa, sovraproduzione industriale, aumenti a fiotti dei costi dei carburanti e delle materie prime in genere, difficoltà delle banche a sostenere il credito, Stati a rischio default (Grecia e non solo),  tutto ciò può essere giustificato solo con la diminuzione della velocità di  “offerta” da parte della fonte di energia primaria, gli idrocarburi appunto.

Un eccesso di ottimismo verso l’utilizzo di HC a basso EROEI (quali le sabbie bituminose) o di petrolio “spremuto” da giacimenti in forte declino potrebbe davvero lanciarci in una mission impossible, fatta di illusioni, ulteriore spreco di risorse e prezioso tempo perso; per non parlare poi dei rischi di disastro ambientale.

Vi propongo la seguente recente elucubrazione, sulla cui base è possibile fare un parallelo logico (in termini di energia spesa ed energia recuperata): gli scisti bituminosi stanno al petrolio convenzionale come un impianto solare termico mal parametrato sta a uno correttamente gestito.

L’altro giorno stavo mettendo a punto alcuni coefficienti della centralina elettronica del mio solare termico. Tra questi vi è il salto di temperatura minimo (tra la mandata dei collettori e l’accumulo) al di sotto del quale la pompa non viene azionata. Ossia, se la quantità di calore “recuperabile” è bassa, come ad esempio al mattino presto e la sera verso il tramonto, ci potrebbe essere svantaggio energetico nel mantenere il processo di circolazione forzata. Questo dipende anche dall’altezza dei collettori solari rispetto all’accumulo. Se ad esempio l’altezza è di 10 metri, potrebbe essere svantaggioso mantenere le pompe (circa 200 W) se, visto il sole flebile, il salto termico è di soli 1-2 °C e la potenza termica corrispondente recuperata è di 150-200 W [Per circuiti in pressione, e in casi limite si potrebbe addirittura verificare che stiamo alimentando le pompe con il risultato di far funzionare i pannelli come un dissipatore di calore, diminuendo così la temperatura dell’accumulo].

Un ragionamento ingenuo porterebbe a dire che si sta comunque recuperando calore, mentre considerazioni energeticamente realistiche portano invece a concludere che si sta effettivamente lavorando in pareggio scarso o in perdita. Come si suol dire, "per la gloria" di un'ideologia.
Sarebbe meglio impiegare quella potenza elettrica per far girare una pompa di calore, che garantirebbe una produzione termica di 3-4 volte superiore. Piuttosto, a meno di un disperato bisogno di acqua calda (non è indispensabile fare 3 docce al giorno), è meglio fermare le pompe. In ogni caso, una classica resistenza elettrica in questo contesto garantirebbe la stessa prestazione, con il massimo della semplicità in componenti.
Impostando correttamente il salto termico minimo per l’azionamento della pompa, è possibile osservare nelle fasce orarie più favorevoli (dalle 10 alle 15 in primavera) un rapporto tra energia spesa per la pompa e energia termica recuperata fino a 1:15 , e anche 1 : 20 nei momenti di picco di insolazione.

Come si può vedere, spendere lavoro è bello e nobilita, ma bisogna farlo in modo “saggio”, entrando in risonanza con i flussi rinnovabili. Tutto il resto è tempo perso, distorsione psicologica, è pericolosa produzione di entropia... in un momento storico in cui lo spettro della "transizione al caos" aleggia come non mai.

giovedì, luglio 15, 2010

Dal paese dei trulli


 Questo è un resoconto dell'intervento che ho fatto al convegno  "Raccontami una Storia" organizzato a Martina Franca dal consorzio Costellazione Apulia il 19-21 Marzo 2010. Non è una trascrizione, ma un testo scritto a memoria che cerca di mantenere il tono e la sostanza di quello che ho detto.

Buongiorno a tutti. E' stato veramente un grande piacere essere presente a questo convegno che ho trovato molto innovativo e interessante. E' raro trovare un gruppo di imprenditori che abbiano così chiare certe esigenze che abbiamo oggi; l'attenzione alla responsabilità sociale, al ridurre l'impatto sul consumo delle risorse e, soprattutto, alla necessità di cambiare le cose.

Vedete, non è raro per me essere invitato a parlare a degli imprenditori nel mio ruolo di modesto esperto di risorse minerali. Faccio il possibile per essere chiaro, ma mi accorgo spesso che le persone a cui parlo non sono preparate a ricevere il messaggio che cerco di mandare. Non che non siano brave persone, per carità. Si accorgono che c'è qualcosa che non va, che non riescono più a fare le cose che facevano prima. Si rendono conto che c'è un problema ma non riescono veramente a fronteggiarlo; nudo e crudo com'è.

Invece, credo che per voi certe cose siano – beh – non diciamo ovvie, ma insomma non sareste qui se non aveste chiara almeno una linea generale della faccenda. Probabilmente avete chiaro che stiamo oggi fronteggiando non un solo problema ma un gruppo di problemi, correlati fra di loro. Siamo di fronte al graduale esaurimento delle risorse minerali, al riscaldamento globale che avanza, alla necessità di re-inventarci un'agricoltura sostenibile e, infine, a una popolazione che continua a crescere – perlomeno per ora - nonostante la riduzione delle risorse disponibili.

Ognuno di questi problemi è di per se grave, forse irrisolvibile, ma questo non è detto e non è affatto detto che non si possa fare qualcosa perlomeno per attenuarne l'impatto. Io mi presento – come dicevo – più che altro come un modesto esperto della situazione delle risorse minerali e vi invito a considerare qualche fatto storico che sapete tutti ma che, forse, non avete messo in relazione con la disponibilità di risorse minerali. Sapete che la rivoluzione industriale in Italia è cominciata verso la metà dell'800 ma forse non avete notato che è stata tutta basata sulla disponibilità di carbone inglese. Nell'800, e per la prima metà del '900, il carbone giocava il ruolo che ha oggi il petrolio nell'economia globale. E, come il petrolio, il carbone non è infinito. Forse non sapete che la produzione di carbone inglese ha raggiunto il suo massimo, quello che a volte chiamiamo “il picco,”  nei primi anni '20. Questo non voleva dire che non c'era più carbone – solamente che ce n'era di meno e costava più caro. E questo ha messo in difficoltà l'economia italiana che non si mai veramente ripresa dal disastro della prima guerra mondiale. Se andate a vedere i dati del consumo di carbone in Italia dal 1920 al 1940, vedete che la curva è piatta. L'economia italiana non riusciva a crescere. Siamo entrati nella seconda guerra mondiale con ancora un'economia che produceva poco più di quello che produceva al tempo della prima guerra mondiale. Nessuna meraviglia che la guerra sia stata il disastro che è stato, specialmente considerando che ci eravamo messi contro il nostro principale fornitore di carbone, l'Inghilterra.

Ora, questa è storia passata ma è interessante considerare come certe cose si ripetano. Dopo la guerra, l'economia italiana è ripartita ed è cresciuta sulla base della disponibilità di petrolio abbondante e a buon mercato. Pensateci sopra un attimo, l'economia attuale è nata sulla base di un petrolio che costava – in media – meno di 20 dollari al barile, tenendo conto dell'inflazione. I prezzi, si sa, sono volatili, ma questa settimana il petrolio costava intorno agli 80 dollari al barile. Allora, la domanda è: può l'industria italiana sopravvivere in queste condizioni? Personalmente direi che non è affatto detto, anche tenendo conto del fatto che non è solo il petrolio il problema, ma c'è quello di tutte le materie prime. Più gli altri problemi di cui accennavo.

Allora, la domanda è “che cosa facciamo?” Al tempo del duce, il governo reagì alla crisi mandando i bombardieri contro il nostro principale fornitore di carbone, l'Inghilterra. Questa, ovviamente, non si rivelò una gran buona idea. Per fortuna oggi non lo possiamo fare – intendo dire mandare i bombardieri contro la Libia o la Russia che sono i nostri principali fornitori di petrolio - sennò a qualcuno probabilmente gli verrebbe in mente. Sicuramente ci devono essere delle idee migliori.

Io credo che ce ne siano. Per fortuna, oggi abbiamo delle possibilità tecnologiche che al tempo della crisi del carbone, negli anni '20 e '30 del ventesimo secolo, non si potevano nemmeno immaginare. Pensate al fotovoltaico, all'eolico moderno o a tante altre cose che possiamo fare oggi per mandare avanti un'economia consumando poca energia – computers e comunicazioni, per esempio. Queste cose non c'erano al tempo dell'autarchia che fu sostanzialmente un fallimento. Incidentalmente, l'autarchia è un periodo storico che andrebbe un po' rivisto per tante cose che ci potrebbero dare ispirazione anche oggi, ma non entriamo in questo argomento.

In sostanza, la cosa fondamentale di cui abbiamo bisogno per mandare avanti la baracca è l'energia. Non basta da sola, ma di certo senza energia non possiamo fare niente. E, per fortuna, abbiamo delle buone tecnologie per produrre energia – le rinnovabili, appunto. Invece, non abbiamo nessuna tecnologia che ci potrebbe permettere di sbarcare la situazione di fronte a un riscaldamento globale che porterebbe alla desertificazione di gran parte dell'Italia del Sud, proprio dove siamo noi oggi. Possiamo anche far poco in termini tecnologici per rimediare al consumo di suolo fertile e il discorso della popolazione è una cosa che non si può abbordare in termini tecnologici: non è un problema tecnologico. Questi sono tutti problemi in gran parte sociali e umani. Ma, perlomeno, se abbiamo energia possiamo mantenere in piedi le strutture di quella cosa che chiamiamo civiltà e lavorare sui problemi in modo razionale. Ieri diceva qualcuno che la civiltà è l'insieme di cose che ci difendono dalla barbarie. Credo che sia giusto – ma notate che per avere una civiltà dovete avere energia. Senza energia, niente civiltà e si aprono le porte alla barbarie. Sotto certi aspetti, è una cosa che stiamo cominciando a vedere proprio in questo periodo; il ritorno della barbarie. Perciò è vitale avere energia.

Su questo punto vorrei aggiungere un'altra cosa; il fatto che la civiltà non è soltanto una cosa che ci difende dalla “non-civiltà,” ovvero dalla barbarie, ma è anche l'insieme delle risorse umane che può generare. L'energia ci serve per affrancarci dalla povertà materiale. Se non abbiamo un minimo di prosperità materiale non possiamo nemmeno sviluppare quel patrimonio spirituale e di conoscenza che è la base della civiltà. In effetti, il ritorno alla barbarie passa dalla distruzione delle risorse umane e spirituali della società. E, ancora, è quello che stiamo vedendo accadere.

Il problema, dunque, non è tanto un problema tecnologico. Abbiamo delle buone tecnologie per produrre energia senza far uso di risorse esauribili (che sia petrolio o uranio, è la stessa cosa. Sono comunque risorse esauribili). Il problema è che la società non si sta muovendo per sfruttare queste risorse rinnovabili. Parlava qualcuno ieri della “società di pietra”, ovvero di una società – la nostra – che si trasforma in un blocco inamovibile che rifiuta ogni cambiamento. Vedete come vengono usate le risorse che abbiamo accumulato in decenni di prosperità che il petrolio ci ha dato. Vengono sprecate per cercare di mantenere in piedi strutture che ormai non possiamo sostenere. Per esempio, sostenere l'industria automobilistica con i soldi pubblici. Non che chi ha inventato questa idea non fosse bene intenzionato, ma i problemi che abbiamo non si risolvono producendo più automobili. Assolutamente no. Ed è la stessa cosa quando si parla di ponti, di aeroporti, di linee ad alta velocità. E' tutto un tentativo di insistere con cose che una volta hanno fatto la nostra ricchezza, quando il petrolio costava poco, ma che oggi sono un pozzo senza fondo dove buttiamo le risorse che ci sono rimaste. Letteralmente, stiamo costruendo castelli in aria che sono destinati a crollare e che ci lasceranno soltanto macerie.

Un altro disastro che vediamo oggi e che con l'impoverimento generalizzato, la società emargina in blocco le categorie più svantaggiate per cercare di mantenere i privilegi del suo nucleo. Questa è una vera e propria guerra fatta contro i giovani che si trovano sempre di più a essere allo stesso tempo sfruttati e marginalizzati. Ma anche le minoranze etniche e culturali subiscono lo stesso destino. Molti di voi lavorano in questo campo, ho visto, a anch'io faccio quello che posso. Ma ti trovi di fronte a un sistema completamente schizofrenico – a una burocrazia spaventosa che impedisce di lavorare a gente che potrebbe lavorare e dare un contributo utile alla società; ma che si trovano impantanati in una situazione nella quale sono costretti a vivere un di assistenza o di piccoli crimini. In entrambe i casi è una perdita netta per la società che non riesce nemmeno a sfruttare risorse umane che ci sono.

Quindi, il nostro problema non è né di tecnologie né di risorse. Le prime le abbiamo e sono già abbastanza buone per quello di cui abbiamo bisogno. Delle seconde, le risorse, ne abbiamo ancora, nonostante il declino già iniziato da un pezzo. Il problema è che non ci decidiamo a mettere insieme tecnologie e risorse e a costruire il nostro futuro. Perlomeno, non riusciamo a farlo in una misura sufficiente. E' un problema di creatività; è un problema umano.

Quindi, è un piacere vedere oggi che c'è un gruppo di persone che queste cose le ha pensate e che si da da fare in proposito. Persone che sono imprenditori e non politici o professori universitari; persone che usano le risorse che hanno in vista anche del bene comune, del futuro nostro e dei nostri figli. Ovviamente, in questa stanza oggi siamo una trentina; in tutto questo piccolo convegno credo che siano state coinvolte un centinaio di persone. Eppure, bisogna cominciare da qualcosa e anche poco è un inizio.

Vi faccio un esempio: nel mio piccolo anch'io sto cercando di impiegare le mie modeste risorse per installare impianti di energia rinnovabile. Non che io possa lavorare sui megawatt, ma mettendomi insieme con altre persone; beh, allora sulle centinaia di chilowatt, ci posso arrivare. Ma che cosa puoi fare con qualche centinaio di chilowatt? E' nulla in confronto alla produzione di energia elettrica che, da noi, si fa tutta con gas, carbone e petrolio.Vero, ma fate un po' di conti e vedrete che basta che alcune migliaia di persone installino qualche centinaio di chilowatt ciascuno e l'impatto sulla produzione si comincia a vedere – intorno all'1%, non più di così. E' poco ma c'è un punto sostanziale: Partendo dall'1% si può costruire; ci si può espandere. Partendo da zero, non si può fare niente. Un impianto fotovoltaico costruito oggi funzionerà ancora fra vent'anni e fra vent'anni ci potrà dare l'energia necessaria per costruirne degli altri. Fra vent'anni, questo ve lo posso dire con certezza, il petrolio costerà come il whisky d'annata e non ce ne sarà abbastanza. E se non avremo costruito un sistema che ci dia energia, allora non ci resterà che tornare a fare i contadini che abitavano nei trulli qui intorno, secoli fa. Non che non fosse una vita dignitosa e interessante per tanti versi, ma era anche una vita di una povertà estrema e non credo che sia quello che vogliamo che la nostra società diventi nel futuro.

Allora, il nostro compito, il compito di quelli di noi che hanno qualche risorsa da investire, è di investirla bene, per il futuro – sull'energia rinnovabile, ma non solo: anche sulle risorse e questo da noi vuol dire gestire bene i nostri rifiuti che prima o poi dovremo cominciare a vedere come le nostre miniere. E poi anche su tutte quelle cose che valorizzano le risorse umane, che ci preparano  al mondo del futuro.  Questo non vuol dire doverci rimettere dei soldi; al contrario. Se riusciamo a capire quello che ci aspetta, allora è il miglior investimento che possiamo fare.




Ringrazio il consorzio Costellazione Apulia 

lunedì, luglio 12, 2010

Il crollo della bolla immobiliare: USA e Italia a confronto


Grafico da www.worldofwallstreet.com. (cliccate per ingrandire). I prezzi storici delle case negli Stati Uniti, corretti per l'inflazione. 

Nel 1977 lavoravo all'università di Stony Brook, a Long Island, negli Stati Uniti. Una cosa che mi stupiva molto era quanto costassero poco le case in confronto all'Italia; e questo nonostante che fossimo in una zona ritenuta piuttosto cara - vicina com'era a New York. Mi ricordo di aver visto una lottizzazione in costruzione non lontana da dove stavo io: c'erano case annunciate in vendita a poco più di diecimila dollari. A quell'epoca, il mio salario era circa 700 dollari al mese. Ovvero, una casa corrispondeva a meno di due anni di stipendio di un lavoratore precario, come lo ero io. Se lo paragono al rapporto fra costi delle case e quello che guadagnano oggi i precari in Italia, veramente non c'è confronto.

Va bene che quelle case di Long Island erano case di legno inchiodate un po' alla meglio; va bene che le finiture facevano schifo; e non diciamo niente dell'estetica, con le persiane finte dipinte di rosa inchiodate vicino alle finestre. Ma erano comunque case dove, bene o male, si poteva abitare. Da quell'epoca mi è sempre rimasto un apprezzamento del "sogno americano", quello per il quale anche gli ultimi nella scala sociale possono avere la loro casetta con il praticello intorno. E, in effetti, era un sogno che si poteva realizzare.

Ma le cose sono cambiate ovunque; e anche in America, dove la bolla immobiliare ha fatto macelli incredibili. Ho trovato questo interessante grafico su www.worldofwallstreet.com. (cliccate per ingrandire). Fa vedere l'andamento dei prezzi degli immobili negli Stati Uniti dal 1890 a oggi. Sono dati corretti per l'inflazione e si vede che dagli anni '50 agli anni 90, i prezzi sono rimasti approssimativamente constanti; a parte il picco del tutto abnorme del 2006. Il sogno americano della casetta col praticello intorno, in effetti, è stato vivo e vegeto fino alla fine degli anni '90. Poi, è cominciato il disastro.

La bolla immobiliare negli Stati Uniti ha costretto i nuovi acquirenti a indebitarsi pesantemente con le banche. Le banche, a loro volta, hanno concesso facilmente crediti sulla base di una previsione di incremento continuo del valore degli immobili. La salita è stata vertiginosa e il crollo veramente brutale. Ha lasciato un gran numero di persone veramente sul lastrico, al punto che si stanno cominciando a demolire case che non valgono più niente e che nessuno vuole. D'altra parte, come dicevo, sono casette di legno inchiodate alla buona e si demoliscono facilmente.

E' interessante, a questo punto, comparare con la situazione italiana. La nostra percezione è che i costi delle case siano aumentati inesorabilmente e continuamente a memoria d'uomo. Non ho trovato dati storici che vadano indietro fino all'800, ma per i passati 40 anni l'andamento della bolla immobiliare da noi sembrerebbe completamente diverso da quello degli Stati Uniti (dati da freeforumzone):

Non so dire quale siano le ragioni di questa differenza. Potrebbe essere dovuta, per esempio, al fatto che la densità di popolazione negli Stati Uniti è più bassa che da noi, il che rende meno costoso il terreno. Oppure forse negli USA ci sono meno tangenti da pagare ai vari politici che gestiscono il territorio. Forse anche gioca il fatto che le case negli USA sono quasi sempre di legno: il costo di costruzione è minore che da noi. O, infine, semplicemente il fatto che negli USA tutto avviene sempre più in grande e più rapidamente che da noi.

L'unica cosa certa è che la bolla è bolla ovunque. Da noi, il crollo sembra essere più graduale - ma è crollo comunque.

sabato, luglio 10, 2010

L'amaro destino dei verdi

Qualche giorno fa ho ascoltato per caso una trasmissione radiofonica che commemorava, mettendone in luce la complessa e articolata figura di politico e pensatore, uno dei fondatori dei Verdi italiani, Alex Langer, purtroppo scomparso prematuramente e tragicamente.
La trasmissione approfondiva principalmente l’originale contributo offerto da Langer alla tematica della multiculturalità e alle sue battaglie per il superamento dei conflitti etnici che avevano segnato anche la sua vita in Alto Adige di italiano di confine. Egli operò incessantemente per il grande ideale utopico della fratellanza tra i popoli, ostacolato dalle tante barriere sociali, linguistiche e culturali. Si potrà dire che tra i motivi del suo tragico gesto ci fosse anche il senso di fallimento personale provato durante le atroci vicende che dilaniarono la ex Jugoslavia, ma purtroppo nessuna analisi potrà restituirci la vita di questo grande uomo di originale e profondo spessore etico e morale.
Mentre ascoltavo la radio, inevitabilmente, essendo anch’io stato uno dei fondatori delle prime liste verdi in Italia ed avendone condiviso per due decenni le sorti politiche ed istituzionali, il ricordo di Langer mi ha riportato alla mente tutti i dubbi e le domande che mi hanno attraversato negli ultimi anni riguardo il sostanziale fallimento dell’esperienza politica verde in Italia. Di come fosse stato possibile che un’esperienza inizialmente positiva, trainata da personaggi come Langer di elevato valore culturale, politico e persino scientifico, degenerasse gradualmente in un partito di mediocri arrivisti destinato all’autodistruzione e alla sostanziale scomparsa dal panorama politico italiano.
Sicuramente il motivo più appariscente è stata la conquista del partito, con il colpevole e tacito consenso di tutti i leader nazionali, da parte di una nuova classe dirigente rozza, impreparata, carrierista. Però, secondo me, questo è stata solo la conseguenza di condizioni strutturali del quadro politico e sociale italiano. La situazione storica e politica del nostro paese ha disegnato un sistema di partiti eccessivamente frammentato e ciò ha impedito che i verdi seguissero le stesse sorti dei partiti fratelli in altri paesi meno divisi sul piano della rappresentanza politica. Però, c’è un altro elemento, spesso sottovalutato ma secondo me determinante. L’ecologia, nella sua accezione più nobile, è uno dei luoghi di riflessione e azione politica maggiormente collegati al senso dello Stato, al preminente valore della cosa pubblica, alla responsabilità individuale e civile. Tutti valori che, per profonde e complesse ragioni storiche non sono radicati nel nostro paese, quanto lo sono nei paesi del nord Europa. E in ultima analisi, in una democrazia, sono gli elettori a decidere il successo o la sconfitta delle forze politiche.
Ricordo che pochi mesi prima della sua scomparsa invitammo Alex nella mia città per un’iniziativa dei verdi locali e nulla sembrò presagire la sua successiva tragica decisione di togliersi la vita. Ma dopo, ho sempre sospettato che tra i motivi della sua delusione esistenziale ci fosse anche la visione, per noi non ancora chiara, del declino di una grande idea di rinnovamento della politica italiana.

giovedì, luglio 08, 2010

Deepwater Horizon - Cosa è presumibilmente successo




Questo breve post è legato a un recente articolo pubblicato sul sito di ASPO-Italia:  Deepwater Horizon - Cosa è presumibilmente successo, al quale rimandiamo per un'analisi tecnica sulle cause probabili.  L'autore, Anacho, è un socio ASPO esperto del settore Oil&Gas, campo in cui lavora.


created by Anacho 

L’incidente in cui è andata distrutta la piattaforma Deepwater Horizon rischia di diventare il più grave disastro ambientale della storia. L’incubo di ogni perforatore si era avverato: un passaggio diretto era stato aperto tra il fondo marino e un giacimento, il primo incidente in deepwater. Il giorno 20 aprile 2010, alle ore 22,00 locali, una terribile esplosione ha devastato il mezzo, provocando la morte di 11 persone, il ferimento di altre 17 e la perdita dell’unità, affondata il 22 aprile.

La Deepwater Horizon era una semisommergibile di quinta generazione, dotata di tutti i sistemi di sicurezza più moderni ed efficienti, capace di perforare un pozzo a più di 10.000 metri di profondità in alti fondali, con un equipaggio addestrato e preparato, certificata dal severo ABS (American Bureau of Ship).
Come dopo il disastro della Piper Alpha si stanno prendendo provvedimenti affinché questo tipo di incidente non abbia a ripetersi, tuttavia, operando in ambienti estremi come quello delle acque profonde gli incidenti sono sempre possibili, e le conseguenze possono essere molto gravi, come stiamo amaramente constatando nel Golfo del Messico.

Il Dipartimento degli Interni americano ha diramato, il 27 maggio, un documento dal titolo “INCREASED SAFETY MEASURES FOR ENERGY DEVELOPMENT ON THE OUTER CONTINENTAL SHELF”, che si sta diffondendo e che avrà ripercussioni su tutta l’industria petrolifera mondiale: probabilmente un incidente come questo non si ripeterà. Il che non assicura affatto che non ce ne saranno di altri tipi.

martedì, luglio 06, 2010

Smettere di esplorare in Arabia Saudita


Non so cosa ne pensate voi, ma io credo che non gli si può dare certamente torto.


Riadh (Zawya, Dow Jones). Il re saudita Abdullah ha ordinato di fermare le esplorazioni per conservare la ricchezza degli idrocarburi per le future generazioni nel paese che è il massimo esportatore di greggio, così ha detto l'agenzia di stampa ufficiale saudita (SPA) questo Sabato.

"Stavo andando a una riunione di gabinetto e ho detto ai convenuti di pregare Dio Onnipotente di dare a tutti una lunga vita," ha detto il Re Abdullha agli scienziati sauditi che studiano a Washington, secondo la SPA

"Ho detto loro che ho ordinato di fermare tutte le esplorazioni petrolifere, cosicchè parte della ricchezza sarà conservata per i nostri figli e successori, a Dio piacendo," ha detto. Un esponente del ministero del petroli, che non ha voluto essere nominato esplicitamente, ha detto al reporter di Dow Jones, Zawya, che l'ordine del Re non è stato una proibizione totale, ma piuttosto che le esplorazioni future dovranno essere portate avanti con saggezza.


Saudi King: Halt To Oil Exploration To Save Wealth
RIYADH (Zawya Dow Jones)--Saudi Arabia's King Abdullah has ordered a halt to oil exploration operations to save the hydrocarbon wealth in the world's top crude exporting nation for future generations, the official Saudi Press Agency, or SPA, reported late Saturday. "I was heading a cabinet meeting and told them to pray to God the Almighty to give it a long life," King Abdullah told Saudi scholars studying in Washington, according to SPA.
"I told them that I have ordered a halt to all oil explorations so part of this wealth is left for our sons and successors God willing," he said.
A senior oil ministry official, who declined to be named, told Zawya Dow Jones the king's order wasn't an outright ban but rather meant future exploration activities should be carried out wisely.

venerdì, luglio 02, 2010

Geopolitica degli idrocarburi. Istruzioni per l’uso



Prefazione al libro di Stefano Casertano "Oro Blu. La contesa del gas tra Cina, Russia ed Europa", di prossima pubblicazione da Fuoco Edizioni e da cui sono tratte le espressioni virgolettate nel testo.



created by Massimo Nicolazzi


Unconventional. L’anno scorso gli Stati Uniti hanno prodotto grosso modo 250 miliardi di metri cubi di gas naturale “non convenzionale”; e dunque di gas “tight”, gas da shale (scisti), e gas da letto di carbone (“CBM”). Tralasciamo l’approfondimento tecnico. A nostri fini, basta sapere che e’ tutto gas che fino a qualche anno fa non si riteneva possible produrre. Un libro non pubblicato, per parafrasare Goethe, e’ un libro non scritto. Un gas che non si puo’ produrre e’ un gas che non c’e’. Poi pero’ un po’ alla volta hanno imparato a stamparlo; e adesso c’e’, e tanto. 10 anni fa, lo avremmo contato zero e avremmo scritto magari tremanti dell’imminente pesante dipendenza degli Stati Uniti dal gas straniero. L’anno scorso gli Stati Uniti hanno prodotto piu’ della Russia (ma magari in prima pagina non l’avete trovato), hanno importato meno del 10% del consumato, e il volume di unconventional che hanno prodotto equivale grosso modo al 100% del volume di gas naturale esportato dalla Russia nel corso dell’anno.

Europa. Dice che qui tra ambientalisti e permitting e (forse) anche una diversa qualita’ delle risorse col cavolo che l’unconventional si riuscira’ mai a produrlo. Pero’ non c’e’ nessuno che dica che non c’e’. World Energy Outlook, 2009, p. 413 : “unconventional resources in OECD Europe are large enough to displace 40 years of imports of gas at the current level, assuming recovery rates in line with those in North America”. Magari e’ una bufala peggio dell’idrogeno. Pero’ se anche fosse solo in parte vera ti cambia il mondo. La Polonia Texas d’Europa. I pellegrinaggi che riscoprono Czestochowa e snobbano Baku, per non parlare di Ashkhabad. Suppongo a qualcuno verrebbe da parlare di rivoluzione geopolitica. In realta’ aveva solo sbagliato scenario. Quando proiettiamo il domani, non facciamo spesso che proiettare l’oggi. Business as usual.

Prima istruzione per l’uso. Le risorse naturali preesistono alla politica, e qualche volta la modellano. I combustibili fossili non si formano nelle viscere dei Dipartimenti di Stato e anche se la dinamica dei fluidi e’ infinitamente piu’ noiosa della politica estera (o forse solo assai piu’ complicata...) non sarebbe male ricordarsi di premettercela. Che poi ne escano modelli con troppe variabili per consentire una predizione dovrebbe essere solo normale. Nel futuro non c’e’ niente di solito.

###

La guerra del gas . E quelle del petrolio. Produttori contro consumatori. Ricatti e complotti e conflitti. In realta’ non funziona. Gli idrocarburi fino alla fine della seconda Guerra mondiale erano essenzialmente made in the U.S.A. Negli anni trenta dell’altro secolo gli Stati Uniti arrivarono da soli ad oltre il 60% della produzione mondiale. Poi si scopri’ che la maggior parte di quello che non era in America sembrava quasi per contrappasso essersi andato a depositare lontano dalla Democrazia. Di qui, soprattutto dalla crisi del 1973, lamenti e allarmi e paure per la nostra dipendenza. Facendo magari finta di non capire che chi produce ha spesso piu’ bisogno di chi consuma che non viceversa, perche’ al netto della partita energetica il suo PIL rischia l’invisibilita’ e la sua bilancia dei pagamenti si mette a funzionare solo su un piatto (quello delle importazioni). Togliete gli idrocarburi ad Ahmadinejad e poi vediamo come paga le pensioni (tutti sicurissimi che il nucleare lo faccia con finalita’ prioritariamente belliche?). Togliete la partita energetica all’amico Russo e ne avrete mutato in recessione lo sviluppo interno dell’ultimo decennio. La chiusura selettiva dei rubinetti sin qui si e’ risolta nel chiudere a chi non pagava e quando ne mancava (2005) nel chiudere selettivamente a chi pagava meno. Che poi in entrambi i casi si trattasse di soggetti statali gia’ appartenenti all’orbita sovietica magari da’ il sospetto che fosse complotto imperiale; pero’ da’ anche la certezza che la crisi aveva radici nel collasso economico interno. “La via del gas russo non e’ necessariamente una minaccia”; e un modo proficuo per provarsi a leggere la politica russa da Putin in poi puo’ assumere le lenti del tentativo di diversificare le fonti di prodotto interno, e leggere come priorita’ dell’Amministrazione russa, prima e piu’ che di quelle europee, la necessita’ di ridurre la propria dipendenza energetica. Se bastassero riserve e rendita petrolifera a garantire sviluppo Nigeria e Congo sarebbero Paesi ricchi.

Seconda istruzione per l’uso. Per i produttori l’idrocarburo non e’ (di regola) strumento diretto di politica, ma strumento di finanziamento della politica. Se il prodotto interno e’ largamente tributario della produzione di idrocarburi non puoi privarti del loro reddito. Poi, dato che il mondo e’ ormai un grande mercato, e proprio per questo, puoi permetterti di fare il selettivo. Gli arabi potevano proclamare l’embargo a Stati Uniti ed Olanda, che alla fine il loro greggio ci arrivava comunque attraverso quelli cui l’embargo non si applicava. Chavez puo’ proclamare la priorita’ politica della destinazione del suo greggio, che in pratica vuol solo dire che dove non vende lui vendono gli altri, e l’importante alla fine e’ che si riesca a vendere tutti. Senza produrre ed esportare non ti paghi ne’ il missile ne’ la pensione. Non puoi permetterti l’embargo del petrolio o la guerra del gas. Al piu’, puoi usare petrolio e gas per finanziarti la guerra.

###

Uovo e gallina. Senza il petrolio non ci sarebbe l’automobile. Falso. Il motore di Otto era progettato per andare a (gas di) carbone, e il motore di Diesel a vegetali. Il primo motore a combustione interna, quello di Barsanti e Matteucci, addirittura a idrogeno. Poi e’ vero che senza il petrolio e la sua densita’ non avremmo cosi’ compiutamente sviluppato la premessa della globalizzazione, e dunque la civilta’ dell’automobile ovvero della mobilita’ incondizionata, da punto a punto, di uomini e merci. Pero’ l’intensita’ e la modalita’ dell’applicazione del petrolio, in un secolo nel quale il suo maggior problema era che ce n’era sempre troppo, era spronata o frenata dal consumo, e non dalla produzione. Nella vita tutto e’ concausa; ma incluse le crisi del 1973 e del 1980 e’ sempre stato molto piu’ lo sviluppo americano a determinare la produzione dello sceicco di quanto lo sceicco non abbia determinato i consumi americani. Il mercato, diceva qualcuno, lo fa la domanda; e a volte e’ persino vero.

Terza istruzione per l’uso. La tua capacita’ di approvvigionamento energetico e’ anzitutto funzione del tuo mercato e del tuo sviluppo interni. “Le pipeline definiscono relazioni industriali e politiche”. Dalla Guerra (nel senso ottocentesco, e non in quello iracheno) come forma necessaria del rapporto di dominio al Mercato (licenza retorica, e pure grondante... “scambi commerciali” sarebbe, nella sua modestia, piu’ esatto) come forma necessaria della coesistenza. Con la conseguenza , tra l’altro, che dopo che nel secolo scorso ti e’ infine (faticosamente) riuscito di chiudere i Ministeri della Guerra, il nuovo paradigma di relazione magari adesso consiglierebbe se non di smagrire almeno di ripensare Dipartimenti di Stato e Farnesine. Non basta ribattezzare la diplomazia “cooperazione internazionale”, o simili. Magari la diplomazia aiuta. Pero’ non risolve. Perche’ la tua principale fonte di sicurezza energetica non e’ la brillantezza o il peso militare della tua politica/proiezione estera. La tua sicurezza energetica e’ anzitutto la tua capacita’ di produrre ricchezza interna. Se mai vi sara’ competizione per risorse scarse, il vantaggio competitivo pendera’ tutto dalla parte di chi sapra’ finanziarsene l’acquisto. La “sicurezza” tributaria della “ricchezza” (e se pensate alle tragedie d’Africa, verrebbe quasi da dire che e’ sempre stato cosi’). Non e’ a partire dalla politica estera, ma dal PIL e dalla sua crescita che si modelleranno, se mai, le forme di una assai ipotetica futura competizione eurocinese per il gas russo. ( Che poi magari la scarsita’ nel breve neanche la intravvedi,e di gas ce ne e’, e tanto, e per secoli. Magari moltiplichiamo il nucleare, che col gas ci compete. Magari le rinnovabili diventano una meraviglia anche economica, o finanche l’idrogeno roba seria. Magari per tecnologia e per cultura abbattiamo i consumi fossili molto prima del previsto. .. La casistica delle possibili deviazioni dal business as usual tende per definizione all’infinito).

###

La scrittura di “Oro Blu”, pur conoscendole, non esplicita le istruzioni per l’uso. Sceglie di narrare e di narrarsi per altra via, apparentemente piu’ ligia all’estetica classica della politica estera. Cinematograficamente, e’ (quasi) una soggettiva. Perche’ l’estetica classica resta comunque lo strumento piu’ diffuso della percezione. E perche’ le parole della politica estera sono le forme del consenso interno. Un governante produttore che dicesse che gas is just money, oltre a durare pochissimo, fertilizzerebbe per reazione protezionismo e hybris nazionale. L’estetica classica richiede che al governato ed al governante ci si indirizzi in forme piu’ rispettose del consenso e della cultura nazionale. “Sembra quasi che la Russia, per esprimere il suo carattere positivo e costruttivo, debba ancora prendere consapevolezza delle sue enormi potenzialita’ come Potenza industriale e economica...tornera’ ad essere un grande Paese, ma dovra’ avere abbastanza fiducia in se’ stessa da mettersi in gioco nella societa’ aperta”. Detta cosi’, vorrebbe andare dalla stessa parte; e rischia pure di arrivarci prima.