lunedì, maggio 31, 2010

Prima o poi tapperanno quel maledetto buco nel golfo del Messico


Una delle previsioni di ASPO per la produzione petrolifera. Quella zona dove ci sono delle piccole onde blu è il "deepwater", ovvero petrolio che arriva da zone che vanno ben oltre la piattaforma continentale. E' petrolio costoso, difficile e - oggi lo sappiamo - anche molto rischioso. Prima o poi tapperanno quel maledetto buco nel golfo del Messico, ma questo disastro non era imprevedibile.


Un paio di anni fa, dissi a una collega (e ho i testimoni) "vedrai che fra qualche anno dovremo smettere di fare ricerca. Non avremo più soldi." La collega rimase piuttosto incredula, ma credo che oggi non lo sia più tanto. Il disastro che sta sommergendo l'università e le istituzioni di ricerca in Italia è qualcosa che va vissuto per crederci. Sto vedendo il mio gruppo di ricerca, vent'anni di lavoro per metterlo insieme, sparire un pezzo per volta. Il buffo è che questa cosa l'avevo prevista. Eppure, è servito a poco a scansare la botta anche se forse il fatto che ce lo aspettassimo l'ha resa meno traumatica. Alcuni dei miei collaboratori hanno lasciato in anticipo la nave che affonda. Degli altri, non prevedo che li troverò a chiedere l'elemosina al semaforo, sono gente in gamba e se la caveranno. Ma è comunque una perdita secca per la società. Sono competenze che, una volta sparite, non si rimettono più insieme se non in altri vent'anni.

Questa faccenda di aspettarsi le cose che poi avvengono veramente mi fa quasi paura. Ormai lo vedo succedere troppo spesso. Avevo previsto l'aumento dei prezzi del petrolio già nei primi anni del 2000. Nel 2008 avevo previsto il crollo dei prezzi che si è poi puntualmente verificato.

E a proposito del disastro del golfo del Messico? Beh, prevedere uno specifico disastro è ovviamente impossibile. Vi dico però che mi aspettavo qualcosa del genere. Non ve lo posso provare, perché non l'avevo scritto da nessuna parte ma penso che ci potete credere perché è tutto parte della visione di ASPO: il problema dell'esaurimento.

Allora, finchè uno scava pozzi a bassa profondità, a terra, può succedere di tutto ma anche i peggiori disastri sono stati rimediati in pochi giorni (come, per esempio, dopo che in Kuwait gli Irakeni in ritirata avevano minato i pozzi) (*). Ma di pozzi "facili" ormai ne sono rimasti ben pochi. E allora, la gente si mette a cercare il petrolio nei posti e nei modi più impensati. Un modo è il cosiddetto "deepwater" che è un impresa molto difficile. Già dovete andare giù a chilometri sotto il mare, e poi giù ancora, trivellare per altri chilometri. Immaginatevi una zanzara che trivella il vostro lavandino pieno d'acqua con l'idea di arrivare fino al pavimento, insomma credo che siano quelle le proporzioni.

Tirar fuori questo petrolio è un'impresa molto difficile; poi, siccome costa caro, è abbastanza probabile che qualcuno pensi a fare un po' di cresta per risparmiare su questo e su quello. Alla fine, va sempre a finire che si tende a risparmiare sulla sicurezza. Ed è così che succedono i disastri. Non si può esattamente prevedere quando si verificheranno, ma ci si può immaginare che ce ne saranno. Probabilmente, questo qui del golfo del Messico non sarà l'ultimo.

Prima o poi qualcuno finirà per tappare quel maledetto buco; nel frattempo mi sembra di vivere in una profezia. Sapete, tipo Edipo e la Sfinge. Com'era quella domanda? .... "cos'è che cammina con quattro gambe la mattina, con due a mezzogiorno e con tre la sera?" La risposta, direi, è l'industria petrolifera. (o forse l'università italiana)



(*) da notare che tappare una perdita di petrolio è - di solito - molto più facile che tappare una perdita di gas. Siamo fortunati!

sabato, maggio 29, 2010

L'Italia in debito di ossigeno - anzi, di petrolio.

Arriva da "The Oilwatch Monthly" questo dato abbastanza impressionante sui consumi petroliferi italiani. Siamo in calo molto netto dal 2004 - da allora abbiamo perso oltre il 15%.

Non vi faccio lunghi commenti su questa cosa, ma credo comunque che sia indicativa del pessimo stato di salute dell'economia italiana che sembra essere in "debito di ossigeno" se prendiamo il petrolio come il fluido che un'economia deve respirare per poter continuare a lavorare e produrre.

Se non ci decidiamo a sostituire il petrolio e i fossili con le abbondanti risorse che abbiamo qui, continueremo a scendere una china che ci porterà non si sa dove, ma sicuramente non dove vorremmo andare.

giovedì, maggio 27, 2010

The Piggy Driver



Negli ultimissimi giorni del 2009, ho potuto pubblicare su questo blog un articolo dal titolo “Efficienza e Resilienza: dopo il Paradosso di Jevons, il Principio del Porcellino”. Il suo contenuto era una trattazione strettamente teorica dell'efficienza energetica e delle sue ricadute sui consumi e sulla resilienza delle società.

É tuttavia venuto il momento di una veloce verifica dei dati sulle variabili coinvolte. É più che doveroso - e molto interessante - controllare se le conclusioni dell'articolo sono sbagliate oppure se hanno un minimo di appiglio nella realtà.

Per chi in quei giorni di fine anno fosse stato – a buon ragione – molto più impegnato ad imbandire tavolate molto piggy, ecco una brevissima sintesi delle tesi di fondo dell'articolo: in base alla Teoria del Consumatore e al Principio del Porcellino - concetti in cui ci si imbatte in qualsiasi corso base di Economia, ma stranamente ignorati -, non l'efficienza energetica dei beni di consumo, ma il prezzo dell'energia e il reddito degli individui sono i principali determinanti dei consumi energetici pro-capite. L'efficienza, invece, gioca un ruolo importantissimo nell'aumentare il livello di resilienza delle società. Il consumo energetico totale è invece il prodotto tra il consumo pro-capite e il numero di consumatori; ed è dunque impensabile trascurare la variabile demografica nello studio di questi fenomeni - e anche quest'ultimo aspetto è bellamente ignorato dalla retorica ufficiale -.

Il tutto può essere riassunto nel seguente grafico:

Come “campo di prova” è possibile esaminare, per il periodo che va dal secondo dopo guerra ai nostri giorni, le variabili chiave per la mobilità privata negli Stati Uniti: i consumi e i prezzi della benzina, le miglia percorse, l'efficienza delle automobili e i redditi. Per gli Stati Uniti, si può infatti risalire facilmente a serie storiche da fonte ufficiale adatte a questa esigenza. La lunghezza di queste serie consente, inoltre, di osservare la “big picture” e di evitare conclusioni fuorvianti dovute all'esiguità del campione osservato. Ça va sans dire che trovare dati di pari qualità e lunghezza per l'Italia è stato uno sforzo assai frustrante...

Tuttavia, bisogna ricordare che il caso delle automobili private negli USA è solo uno degli innumerevoli esempi di consumo energetico: non si può nemmeno lontanamente sostenere di essere di fronte a leggi assolute, applicabili in tutti gli altri campi energetici (riscaldamento, consumi degli elettrodomestici, etc) in tutti i tempi e i luoghi. Anzi, i contro-esempi e le falsificazioni sono le ben venute!


Passiamo allora ai dati.

Se si considerano i dati del consumo di benzina pro-capite partendo dagli anni '30 del secolo scorso (fonte: Federal High Way Administration FHWA, thanks to Metacaffeination) e si confrontano con la serie storica del salario lordo reale orario per lavoratore dal 1947 (fonte: Bureau of Labor Statistics, BLS. Il codice statistica da ricercare è CES0500000032), si ha il seguente risultato:


Come si vede, la correlazione è veramente impressionante.

Tralasciando lo stupore nel vedere in modo così chiaro che i salari lordi reali – e perciò il potere d'acquisto dei lavoratori - sono stagnanti da 40 anni negli USA (e chissà per l'Italia...), è il caso di sgombrare il campo da alcuni dubbi che possono sorgere di fronte a questa correlazione.

Innanzitutto, ci si può chiedere che fine abbia fatto il prezzo della benzina. Non deve sfuggire che questo è compreso nei salari reali, che corrispondono al rapporto tra i salari nominali ed il valore dell'indice dei prezzi al consumo. Infatti, quest'ultimo è un dato proporzionale al costo del paniere di consumo scelto dal BLS. E, come è noto, la benzina e il suo prezzo sono compresi in questo indice e lo influenzano direttamente.

Un secondo interrogativo potrebbe riguardare il motivo per cui la correlazione sia così forte con i salari, mentre invece scompare quando si considera il Reddito Nazionale Lordo Reale pro-capite.


Il Reddito Nazionale Lordo pro-capite è la seconda faccia del PIL e corrisponde alla somma di tutti i redditi lordi in un'economia: salari, dividendi, interessi, affitti e capital gains. Come sappiamo, in una società dove i luoghi di residenza, di lavoro, di acquisto e di ritrovo sono molto distanti tra di loro, dove la mobilità pubblica è debole e quella privata è basata sul paradigma dell'automobile, la benzina diviene un bene di prima necessità. In quanto tale, la benzina viene acquistata ogni anno da quasi tutte le famiglie; ma per la maggioranza schiacciante di queste (circa il 99%, anche se per le più ricche bisogna depurare il peso delle stock options) la principale fonte di reddito è il salario da lavoro dipendente. Inoltre, la quota di reddito che viene indirizzato all'acquisto di benzina e ad altri beni di prima necessità decresce con il crescere del reddito pro-capite: in altri termini, i poveri spendono una quota di reddito in benzina molto maggiore rispetto ai ricchi. In più, il salario è la fonte di reddito principale, assieme ai trasferimenti governativi, per le fasce di popolazione più povere. Così, semplificando, quando il potere di acquisto dei salari varia, questo va in buona parte a variare i consumi dei beni di prima necessità. Allo stesso modo, il variare dei dividendi, degli affitti, etc determina le variazioni dei consumi di beni “di lusso”.

Un'ultima critica da prevenire riguarda l'utilizzo di variabili “lorde”. Bisogna ricordare che i consumi dipendono dal reddito personale, che è pari al reddito netto a cui vanno aggiunti i trasferimenti governativi (pensioni, assegni di disoccupazione, invalidità, sgravi fiscali per la prima casa, trasferimenti verso imprese a capitale pubblico per fornire servizi di prima necessità come l'acqua, la sanità, le ferrovie, etc). Per i redditi bassi, e dunque per i salari più bassi, i trasferimenti vanno più che a compensare le tasse, con un effetto redistribuivo. Dunque, i salari lordi sono una buona approssimazione - sottostimata - dei redditi personali per i lavoratori e i più poveri.


Ma in questo contesto, che ruolo ha l'efficienza dei motori?

Come si può osservare nel grafico seguente, l'efficienza media del parco automobili circolante negli USA (fonte: FHWA, thanks to Metacaffeination) è rimasta costante dagli anni '30 fino agli anni '70, per poi crescere rapidamente fino agli anni '90. La correlazione con gli shock petroliferi e la ritrovata abbondanza dovuta alla ripresa della produzione russa negli anni '90, è evidente. E non a caso, dopo lo shock petrolifero del 2008, il dibattito sull'efficienza dei motori è di nuovo al centro dell'attenzione del pubblico.


Ora, se si approssima l'Utilità individuale con le Miglia percorse pro-capite (nel grafico seguente), si può facilmente dimostrare che, in questo caso, il Principio del Porcellino impedisce veramente ai miglioramenti in efficienza di ridurre i consumi pro-capite di benzina.


Infatti, se si analizzano i dati sulle Miglia percorse pro-capite (in ordinata) e li si correlano ai Consumi pro-capite (in ascissa) si ottiene una buona approssimazione del primo grafico dell'articolo che correla Consumi pro-capite ed Utilità:

Calandoci nei dati, possiamo individuare due differenti periodi temporali in cui le variabili si comportano in modo omogeneo.


Primo Periodo: dal secondo dopoguerra al 1970. Potere d'acquisto dei salari in salita rapida ed efficienza invariata.

In questo periodo, la crescita delle miglia pro-capite e dei consumi di benzina è causata esclusivamente dall'aumento vertiginoso del potere d'acquisto dei salari. L'efficienza non ha alcun ruolo in questi anni, poiché è rimasta invariata, se non addirittura in leggera diminuzione.


Secondo Periodo: dal 1970 agli anni 2000. Potere d'acquisto dei salari stagnante e rapida crescita dell'efficienza.

In questi anni, i salari registrano una battuta di arresto lunga 40 anni, e con essi si fermano i consumi pro-capite di benzina. Le miglia percorse pro-capite (Utilità) crescono per il solo effetto di miglioramenti di efficienza, che, per il Principio del Porcellino, i consumatori preferiscono alla riduzione dei consumi di benzina a parità di percorrenza.

Se vogliamo aggiungere una rasoiata polemica alla fredda analisi, questi dati dimostrano che per la maggior parte della popolazione la steady-state economy è già una realtà da 40 anni. Infatti, a salari invariati si sono affiancati miglioramenti di utilità solo grazie a miglioramenti di efficienza..... E per carità di patria - e brevità -, non vi rimando ai dati sulla produttività del lavoro (PIL Reale/occupato), che è sempre stata legata alla crescita dei salari.


Per concludere l'analisi, passiamo dal consumo pro-capite al consumo totale, che è la variabile più importante in chiave picco del petrolio e riscaldamento globale:


Come si vede, per le vetture private, i consumi di benzina totali sono in costante crescita. Dato che i consumi pro-capite sono rimasti costanti a partire dal 1970, questo effetto non può che essere dovuto all'aumento del numero di automobilisti. E' evidente che questa non può che essere una variabile giustificata da dinamiche demografiche.

Per continuare con le polemiche, quante volte avete letto la parola “demografia” alla voce “proposed policies” dei reports dello IEA e della UE?


Infine, verifichiamo se è effettivamente vero che l'efficienza ha un ruolo importante nel migliorare la resilienza della società.

Per far questo, dobbiamo trovare un indicatore del “colpo” che subisce la società all'alzarsi del prezzo della benzina e verificare se a parità di “colpo” gli effetti sono ridotti in caso di maggiore efficienza. Come si è notato in precedenza, i salariati - dunque la maggioranza della popolazione - sono colpiti in modo più severo dai rialzi dei beni di prima necessità: infatti, in questi casi, il ricco può tagliare i risparmi o i beni superflui, invece i poveri debbono tagliare altri beni importanti e la benzina stessa. Date queste premesse, il rapporto tra il prezzo nominale della benzina (fonte EIA) e il salario orario lordo nominale (fonte BLS), esprime il tempo che un occupato deve lavorare per acquistare un gallone di benzina, e può essere una buona misura del “colpo” subito dalla società.


In corrispondenza degli shock petroliferi del 1979 e del 2008, per acquistare un gallone di benzina si doveva lavorare per 11 minuti: circa il doppio rispetto agli anni in cui la benzina è stata più a buon mercato.

Gli effetti sociali non si possono quantificare in modo univoco, ma non si può dimenticare che nel 2008, differentemente dal 1979, non si ebbero code ai distributori, razionamenti, “domeniche in bicicletta”, etc.. Tra tutte le cause, questo fu dovuto in buona parte al fatto che, di fronte all'impennata dei prezzi, gli automobilisti han potuto tagliare il consumo superfluo (gite fuori porta, etc) che non avrebbero mai potuto raggiungere con le efficienze dei motori del 1979. Rispetto al 1979, nel 2008 le efficienze hanno registrato un aumento del 33%.


In conclusione, lo schema teorico ha una buona corrispondenza con i dati di lungo periodo.

Così, almeno questa volta, non si è proseguito in quel mal vezzo di una parte degli economisti, che consiste nell'evitare con precisione chirurgica ogni confronto con i dati reali, affidandosi a copiose quanto evanescenti congetture.

E questo mal vezzo gode di un'antica, nobile e gloriosa tradizione - oltre che di ottima salute - dato che fu condannato per la prima volta da sir William Petty: era il 1676...

lunedì, maggio 24, 2010

La prima volta


In questo lavoro, Armando Boccone ripercorre la storia dello sviluppo della Bassa Mesopotamia: i fenomeni che arrivarono a maturazione nel sesto millennio b.f.(before present),  l’esportazione di questa realtà su un territorio più vasto di quello in cui prese piede inizialmente, la crisi e l'epilogo.
Da questo iter emergono rapporti molto profondi con quella che è la realtà attuale.


created by Armando Boccone

Introduzione

Il titolo assegnato a questo lavoro può fare pensare alla prima esperienza d’amore avuta nella vita, con i ricordi contrastanti di gioia e di paura, di qualcosa che era naturale e bello fare oppure che non bisognava fare perché peccato, delle conseguenze che ci sarebbero state, ecc.

Il post invece parlerà di quando, nel sesto millennio b.p. nella Bassa Mesopotamia, con la città di Uruk come baricentro, arrivarono a maturazione, per la prima volta, quelle condizioni che poi contraddistingueranno tutta la storia successiva, e, in misura più estrema, la storia attuale.
A un certo punto la Bassa Mesopotamia coinvolse nel suo sviluppo un territorio più vasto, che andava dall’area Siro-palestinese all’Iran settentrionale e meridionale, dalla catena montuosa del Tauro nell’Anatolia meridionale alla penisola arabica e all’Afganistan, creando una complessa e interconnessa realtà.
Si parlerà soprattutto della crisi a cui, per la prima volta, andò incontro questa complessa e interconnessa realtà e degli esiti concreti che si ebbero.

Perché questo lavoro?

Il motivo è molto semplice: si vedono degli aspetti comuni fra la realtà venuta a maturazione nella Bassa Mesopotamia nel sesto millennio b.f. e l’attuale situazione, per cui la crisi che riguardò quella realtà e gli esiti che si ebbero potrebbero essere interessanti per capire l’attuale crisi e le conseguenze che ne potrebbero conseguire.
Uruk: la prima città!

Ai fini di analisi e di comunicazione molte volte è necessario sezionare la realtà e considerarne solamente una parte: è necessario cioè un impoverimento della realtà affinché questa sia comprensibile.

L’espressione che dà il titolo a questo paragrafo (cioè “Uruk: la prima città”) è ovviamente una semplificazione per rendere comprensibile il fenomeno perché l’urbanizzazione (e degli altri fenomeni a cui questo era strettamente intrecciato in rapporti di feedback) aveva già una lunga storia.

E’ però necessario che l’impoverimento della realtà non sia eccessivo altrimenti si cade nell’errore opposto. Si faranno quindi solamente dei brevi cenni alla realtà precedente, giusto per comprendere meglio quanto avvenne nella Bassa Mesopotamia nel sesto millennio b.p.

Circa 10 mila anni fa avvenne il passaggio dalla caccia e raccolta all’agricoltura e alla pastorizia. Tale passaggio non avvenne contemporaneamente su tutta la Terra, ma prima in certi luoghi e successivamente in altri, avvenne con gradualità, con situazioni intermedie, alle volte con forti progressi e alle volte con arretramenti, con aspetti diversi in relazione al diverso contesto ecologico e culturale in cui avveniva. La stessa cosa può dirsi del passaggio dal villaggio di gruppi nomadi o seminomadi, composti da circa una trentina di individui fra uomini, donne e bambini, allo status di "città".
I villaggi iniziarono ad essere consistenti già con la cultura natufiana, che si basava ancora sulla caccia e raccolta, che si sviluppò nell’area siro-palestinese circa 12 mila anni fa, con consistenze di 150-200 individui per villaggio. Anche se di rivoluzione urbana si può parlare solamente in Mesopotamia nel quarto millennio a.C., prima con Uruk e poi, nel millennio successivo, con le città-stato della civiltà sumera, probabilmente già alcuni millenni prima, per esempio con Gerico in Palestina e con Çatal Hϋyϋk in Anatolia, sia la struttura sociale che quella urbana iniziarono a subire mutamenti. Gerico raggiunse circa 2 mila abitanti mentre Çatal Hϋyϋk ne raggiunse 5-6 mila.
Bisogna ricordare che ciò che contraddistingue la città da un villaggio è che nella città avviene una diversa organizzazione sia nel corpo sociale che nella struttura urbana. Questa diversa organizzazione si manifesta in una differenziazione sia nel corpo sociale che nella struttura urbana. A rigore di logica i primi mutamenti si ebbero quando si passò da una consistenza della popolazione dei villaggi da circa 30 persone in media a consistenze di 150-200 e poi di 250-500 persone.

I caratteri della Bassa Mesopotamia nel sesto millennio b.p.

L’urbanizzazione fu solamente uno degli aspetti che arrivarono a maturazione nella bassa Mesopotamia nel sesto millennio b.f.. Gli altri aspetti, strettamente connessi e in continuo rapporti di feedback, furono l’incremento demografico, la specializzazione del lavoro, lo sviluppo tecnologico, l’agricoltura irrigua basata sulla coltivazione di cereali, legumi e ortaggi, l’allevamento caprovino, la creazione di un surplus alimentare che andava a coloro (artigiani, mercanti, sacerdoti, scribi, ecc) non addetti direttamente alla produzione agro-pastorale, ecc.
A questa struttura fu dialetticamente collegata la creazione di un nuovo sistema di valori basati sull’individuo inteso come centro di interessi (dapprima solamente diversi ma poi anche in contrapposizione a quella degli altri individui, visto la scarsità, storicamente determinata, di risorse), sulla gerarchia intesa come orizzonte-contesto in cui si collocano gli individui (indicandone le diverse posizioni e i connessi diversi oneri/diritti nella distribuzione di beni e servizi), sulle derive sociali, con la formazione di corporazioni in conseguenza dei rapporti particolari che si formavano fra gruppi sociali e le attività lavorative che svolgevano, e, infine, sulle derive culturali, intese come quel fenomeno per cui ogni popolazione umana, a contatto con un ambiente ecologico particolare, acquisisce un determinato pacchetto culturale (che, in presenza di condizioni di penuria di risorse materiali, si contrappone in modo molto marcato a quello di altri gruppi umani).

Fermo restando che la visione più corretta è quella sistemica, cioè quella che vede tutti gli aspetti sopra indicati come in continuo rapporto di feeedback fra di essi, bisogna dire che ciò che nel mondo moderno è stato reso possibile dall’utilizzo dei combustibili fossili (carbone e poi petrolio) da circa due secoli a questa parte, nella Bassa Mesopotamia nel sesto millennio b.p.. fu reso possibile dall’agricoltura irrigua accoppiata all’uso dell’aratro seminatore a trazione animale. Con una imponente mobilitazione di masse umane buona parte del territorio fu drenato, furono creati canali per l’irrigazione e furono creati dei campi a forma di rettangoli molto allungati con il lato corto che dava sui canali. I campi ricevevano la necessaria pendenza in modo che non ristagnasse l’eventuale acqua in eccesso. In un territorio così strutturato l’agricoltura cerealicola (grano e orzo) dava rese con un rapporto di 30:1 e oltre fra raccolto e semente.

Questa complessa realtà a un certo punto coinvolse nel suo sviluppo (e per il suo sviluppo), un territorio più vasto. A spingere e ad accelerare questo coinvolgimento fu probabilmente l’assenza nella regione di metalli (rame e stagno), pietre dure e legname, di cui invece erano ricchi quei territori di cui si è parlato.

Il commercio su lunghe distanze

La Bassa Mesopotamia fu costretta a importare i materiali suddetti. A organizzare il necessario commercio fu l’organizzazione templare con l’utilizzo di agenti commerciali, che via terra si servivano di lunghe carovane di asini e via acqua di imbarcazioni per le vie fluviali del Tigri e dell’Eufrate. In cambio di ciò che veniva importato venivano date modeste quantità di stoffe e altri prodotti finiti. Lo scambio era evidentemente ineguale ma rispecchiava le diverse scale di valori esistenti fra le due diverse realtà contraenti.

Le materie prime importate subivano già delle prime lavorazioni nei territori da cui provenivano. Questo era già una prima conseguenza del centro verso la periferia.

Secondo l’ideologia del tempo le materie prime distribuite nei vari territori più o meno lontani avevano il destino di affluire verso il centro del mondo (e cioè la Bassa Mesopotamia in questo caso). La periferia esisteva solamente per il centro. In cambio delle materie prime venivano date stoffe e altri prodotti di basso valore. Era da escludere lo scambio di generi alimentari perché ogni territorio viveva dei generi alimentari che produceva. Invece nelle iscrizioni risultava che a essere scambiate fossero generi alimentari (che, come si è detto, è decisamente da escludere visto il basso valore unitario, il peso e le lunghe distanze da percorrere). La motivazione di ciò probabilmente è da vedere nell’ideologia allora esistente in merito al rapporto fra centro e periferia: ciò che affluiva al centro era naturale che avvenisse mentre ciò che veniva dato alla periferia era considerato un dono e che (fatto non secondario in questa ideologia) era necessario alla loro sopravvivenza.

La struttura del territorio

Al centro del territorio di cui si sta trattando c’è Uruk. Al di là del centro ci sono territori culturalmente diversi, dove però Uruk è presente con colonie che sono veri e propri centri periferici di Uruk e che fanno da intermediare con i territori da cui provengono le materie prime. Nella fascia successiva ci sono territori che hanno una cultura materiale propria anche se l’organizzazione e la cultura locale riflette la presenza di Uruk. Nei territori più lontani ancora il centro intrattiene solamente sporadici rapporti commerciali con avamposti appunto commerciali, senza nessuna influenza di rilievo sulla cultura materiale locale. Ovviamente la realtà è molto complessa per cui è da presupporre l’esistenza di aree con caratteristiche intermedie rispetto a quelle viste. Le varie gradazioni dell’’influenza della cultura materiale di Uruk nei territori con cui questa aveva rapporti si sono individuati, con gli scavi archeologici, nel tipo di manufatti di ceramica, nella struttura urbana e nelle tecniche architettoniche, nelle cretule con sigilli per il controllo amministrativo dei magazzini e dei singoli contenitori di merci, ecc., presenti appunto in questi territori

Le colonie sembrano tante Uruk in scala ridotta, come testimoniano i resti di edifici pubblici come templi, magazzini, mura di fortificazione ed altro. La nascita di questi centri periferici è avvenuta con popolazioni provenienti da Ukuk e/o dalle zone circostanti. I rapporti fra la capitale e i centri minori erano improntati probabilmente sia a un rapporto di dipendenza che di autonomia. Il crollo di tutto il sistema coloniale di Uruk fa presupporre che le varie parti di questo sistema fossero però abbastanza interconnesse.

La crisi, il crollo e gli esiti

La complessa realtà sopra descritta durò un periodo relativamente limitato.
Quali le cause della crisi? I fattori furono sicuramente più di uno ma importanti dovettero essere sia una crisi della metropoli (Uruk), non più in grado di sostenere la complessa rete di rapporti economici del tipo che aveva realizzato e sia una forma di rifiuto, di rigetto, da parte delle varie culture locali nei confronti di quella realtà.
Prima della crisi, di cui adesso si tratterà, i tentativi di alcune culture locali, che insistevano su piccole nicchie ecologiche basate sull’allevamento caprovino, sull’agricoltura secca (cioè basata solamente sulle piogge) e microirrigua (cioè con approvvigionamenti limitati di acqua), di perseguire uno sviluppo urbano sull’esempio di Uruk (anche se non paragonabile quantitativamente a questo) fallirono sul nascere: c’era troppa differenza sia quantitativa che qualitativa rispetto all’ hinterland rappresentato dalla Bassa Mesopotamia su cui insisteva Uruk, che dava rese cerealicole anche di 30:1 e oltre fra raccolto e semente.
Il primo effetto della crisi fu l’immediata scomparsa degli avamposti commerciali nei territori più lontani.
Dopo il collasso dell’organizzazione Uruk andò incontro a un ridimensionamento. Alcune grosse colonie scomparvero come d’incanto mentre altre seguirono lo stesso destino di Uruk, perdendo i caratteri tipici della metropoli (grossi templi, mura di fortificazioni, centralizzazione politico-amministrativa) trasformandosi in grossi villaggi con le loro tipiche economie agro-pastorali. Le innovazioni tecnologiche e politico-organizzative, la specializzazione del lavoro e la gerarchizzazione, tipiche della cultura di Uruk, in parte, però, furono conservate.
Non era possibile per queste colonie conservare i caratteri, anche se in scala più ridotta, della metropoli, perché a esse mancava il “petrolio” di Uruk: la cerealicoltura irrigua con rese di 30.1 e oltre fra raccolto e semente. A ciò bisogna aggiungere la non confrontabilità, in quanto a estensione, dei rispettivi hinterland.

I rapporti interregionali si ridussero fortemente e le varie aree iniziarono ad acquisire caratteri propri. Si ebbe appunto una fase di regionalizzazione. E’ il caso della manifattura ceramica e delle incisioni sulle pietre dure e semi-preziose e di altri aspetti della cultura materiale che iniziarono ad acquisire caratteristiche proprie e diverse da quelle di Uruk.
Negli strati archeologici corrispondenti alla fase del ridimensionamento di Uruk si nota la forte riduzione della presenza di metalli, pietre dure e semi-preziose.
Probabilmente sarà il contrarsi della metropoli di Uruk  comportare in seguito l'affermarsi del “palazzo”, cioè di un sistema organizzativo-politico laico, senza attività cultuali, che in parte si contrapporrà e allo stesso tempo sarà complementare al sistema templare. La particolarità è che l’origine del “palazzo” avvenne al di fuori di Uruk, a Gemdet Nasr, nella parte settentrionale della Bassa Mesopotamia.

Ciò ricorda quanto avverrà poco meno di due millenni dopo, nel tardo bronzo (XII sec. a.C.), quando in seguito al collasso, in tutta l’area del Medio Oriente Antico, delle grandi strutture politico-organizzative, si affermarono la scrittura alfabetica al posto di quella cuneiforme e la metallurgia del ferro al posto di quella del bronzo. La scrittura alfabetica e la metallurgia del ferro già esistevano in precedenza ma la sua introduzione era impedita da alcuni “poteri forti” che facevano parte della struttura politica-organizzativa al potere: gli scribi, il cui potere si basava sulla conoscenza della complessa scrittura cuneiforme e i mercanti, che avevano il monopolio del commercio dello stagno e del rame. Con la crisi che interessò il tardo bronzo vennero appunto meno i portatori di interessi legati alla persistenza della scrittura cuneiforme e della metallurgia del bronzo, cioè gli scribi con le loro scuole e i loro privilegi, i ceti dei mercanti e l'organizzazione politico-amministrativa palatina nel suo complesso.

Quali altri esiti portò il collasso di quella complessa e interconnessa realtà creata da Uruk?
La ricerca archeologica riguardo a questo periodo non ha dato quella ricchezza di ritrovamenti che invece darà in riferimento ai periodi successivi.

Un’ultima cosa si vuole ricordare. Nelle culture locali la scrittura cuneiforme iniziò a presentare sviluppi originali differenziandosi da quella di Uruk. In quelle culture dove la lingua era diversa dal sumerico di Uruk le differenze nella scrittura si fecero ancora più evidenti, aventi l’obiettivo di registrare anche una lingua diversa.

Dopo la crisi della prima urbanizzazione però la Bassa Mesopotamia conservò il potenziale naturale e demografico per riprendersi abbastanza celermente e dare luogo successivamente a una nuova urbanizzazione.

Nella crisi che ha riguardato la prima urbanizzazione non si sono notate alcune cause che, unite a quelle già viste, caratterizzeranno le crisi a cui andranno incontro le successive urbanizzazioni. Esse sono rappresentate dall’impoverimento del territorio agricolo dovuto all’eccessivo sfruttamento con l’agricoltura irrigua (con fenomeni di salinizzazione dei terreni) e dei pascoli in conseguenza dell’allevamento caprovino, dal disboscamento di vaste aree per ottenere legname da costruzione, dalla sempre maggiore competizione politico-militare fra le diverse civiltà per l’accesso alle materie prime (soprattutto metalli) con conseguente distruzione delle infrastrutture agricole e urbane delle civiltà soccombenti, dal meccanismo socio-economico instaurato che portava alla sempre maggiore concentrazione delle ricchezze nei ceti che facevano parte delle grandi organizzazioni politico-amministrative del tempio e del “palazzo” e all’impoverimento di vaste masse contadine che andavano incontro all’asservimento quando non riuscivano a pagare i debiti (e, molte volte, nemmeno gli interessi sui debiti), ecc., ecc..

In questa trattazione di come andò “la prima volta” si sono notati molti problemi che non sono molto diversi da quelli del mondo moderno e si sono notate anche le “soluzioni” che furono prese, che non sono molte diverse da quelle che prefigurano molti studiosi “futuristi".

sabato, maggio 22, 2010

Un paese sull'orlo del baratro

Se guardiamo con attenzione alla storia d’Italia, ci accorgiamo che il nostro paese ha una caratteristica singolare che lo differenzia dalle altre nazioni europee. Quella di andare avanti come se marciasse perennemente in bilico sull’orlo di qualche baratro economico, sociale, organizzativo, militare ed istituzionale ma, grazie all’arte di arrangiarsi, quella mistura di furbizia, inventiva, fantasia, individualismo, gattopardismo, con cui sono impastati da millenni i suoi abitanti, di riuscire sempre a sfangarla evitando all’ultimo momento di cadervi rovinosamente.
E’ accaduto sin dalle origini della nazione, quando uno scalcagnato esercito di mille rivoluzionari guidato da un geniale generale stava per essere sopraffatto a Calatafimi dalle preponderanti forze borboniche, per poi improvvisamente e miracolosamente volgere a proprio vantaggio le sorti di una battaglia che costituì il preludio determinante per la liberazione del sud del paese. Proseguì alla fine del 1800 quando lo scandalo della Banca Romana sembrò scuotere dalle fondamenta i primi accenni di crescita economica avviata da Giovanni Giolitti, il grande statista che ogni mattina recandosi al lavoro si fermava sull’attenti davanti all’ambasciata greca per ringraziarla di evitarci l’onta di essere gli ultimi d’Europa. Continuò dopo la Caporetto della Prima Guerra Mondiale e l’Armistizio della Seconda. Si confermò con la stagione del terrorismo per giungere fino ai nostri tempi con il quasi miracoloso ingresso nell’euro.
E, venendo all’attualità, come spiegare l’apparente contraddizione di riuscire a limitare i danni di una crisi economica devastante che sta trascinando nel dramma sociale, tra i cosiddetti PIGS (la I sta per Irlanda), prima la Grecia, poi il Portogallo e infine la Spagna dell’idolo indiscusso della sinistra italiana? Come interpretare questo apparente paradosso in un paese che possiede un debito pubblico in Europa secondo solo a quello della Grecia?
Con la forza della propria economia familiare e con un metodo errato di contabilizzare l’indebitamento degli Stati.
In un recente articolo sul Messaggero, Franco Fortis mette acutamente in evidenza che il parametro debito pubblico / PIL con cui si misura lo stato di salute di un’economia nazionale è impreciso e menzognero, perché rapporta uno stock di risorse finanziarie con un flusso di beni e servizi. Accade così che paesi con debiti paragonabili o inferiori a quelli italiani e PIL in maggiore crescita si trovino oggi molto più nei guai di noi. Se invece, come si vede nell’allegata tabella si raffronta il debito pubblico con un parametro che misura la ricchezza delle famiglie, la “ricchezza finanziaria netta”, ci si accorge che il nostro paese da questo punto di vista è praticamente allo stesso livello di grandi come la Germania e la Francia. La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, secondo gli ultimi dati Eurostat del 2008, è pari a 43.000 euro per abitante, tra le più alte del mondo, quasi 4 volte più grande di quella dei greci, e più del doppio di portoghesi, irlandesi e spagnoli.
Morale della favola. Siccome questa grande ricchezza è anche il frutto di un “compromesso storico” con cui le classi dirigenti politiche hanno consentito in Italia un'evasione fiscale tra le più alte al mondo e considerando che, per le ragioni più volte descritte sulle pagine di questo blog, si può certamente escludere nel futuro una ripresa dell’espansione economica cui eravamo abituati in passato, per evitare di cadere finalmente anche noi nel baratro, le nostre famiglie dovranno accettare di ridurre un poco la propria ricchezza, con una maggiore fedeltà fiscale volta a ridurre l’enorme e limitante debito pubblico. Ma da quest’orecchio l’attuale governo, che rappresenta la maggioranza degli italiani, sembra irresponsabilmente sordo.

mercoledì, maggio 19, 2010

Scaroni: abbiamo petrolio per due settimane.

Questa ve la passo perché è gustosa. Sul Sole 24 Ore leggiamo una dichiarazione di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, in cui troviamo che

Scaroni osserva: «C'è molto petrolio. Per ora, il nostro pianeta ha la disponibilità di riserve chiamate sicure di oltre un miliardo di barili»

Fantastico! Considerato che consumiamo circa 28 miliardi di barili all'anno, ne consegue che le riserve "chiamate sicure" - ovvero un miliardo di barili - potrebbero bastarci per due settimane!

Ovviamente è una svista - Scaroni voleva dire "mille miliardi di barili" e non "un miliardo di barili". Certo, l'amministratore delegato dell'ENI farebbe bene a stare un tantino più attento nelle sue dichiarazioni che rischiano di non dare proprio la migliore impressione. Ma non è questo il problema principale del comunicato. Il problema è sempre il solito: non riuscire a capire che non tutti i barili sono uguali. Se è vero che di petrolio ce n'è ancora, è anche vero che se è petrolio di cattiva qualità o se dobbiamo andare a tirarlo fuori dal fondo dell'oceano, allora nel tentativo di tirarlo fuori a tutti i costi ci facciamo più danni che altro. E gli eventi recenti lo dimostrano.

Ecco il testo completo del comunicato di Scaroni.


«C'è petrolio sufficiente per coprire i prossimi 70 anni»: è quanto afferma l'amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, in un'intervista esclusiva al quotidiano economico spagnolo Expansion.
Nessun cenno alla Repsol, nel testo pubblicato sul sito web: nei giorni scorsi lo stesso Expansion aveva scritto, nella sua versione online, che Eni aveva avviato sondaggi presso il governo di Madrid per un'eventuale integrazione con il gruppo petrolifero spagnolo-argentino Repsol Ypf. Le prime due domande dell'intervista riguardano proprio la Spagna e l'America Latina.

«Siamo nel mercato del gas spagnolo, con la partecipazione del 50% in Union Fenosa Gas», dice Scaroni. «La nostra presenza nel settore petrolifero downstream (raffinazione e distribuzione) è piuttosto limitata. Pensiamo che consolidare le nostre attività downstream della penisola iberica in Galp, essendo Eni uno dei suoi principali azionisti, possa creare sinergie e aggiungere valore a entrambe le compagnie». Galp Energia è un'azienda portoghese operante nel settore petrolifero e del gas in cui Eni ha una quota del 33,34%. La brasiliana Petrobas ha di recente smentito le indiscrezioni secondo cui sarebbe in trattative per acquisire la quota Eni in Galp.

Quanto all'America Latina, all'osservazione dell'intervistatore che questa area geografica non sembra prioritaria per l'Eni, Scaroni risponde che, fuori dall'Italia, il sostegno dell'Eni è sempre stato l'Africa. «A parte l'Africa abbiamo consolidato la nostra presenza nei paesi Ocse e nella regione del Caspio. In America latina siamo in Brasile, Ecuador e abbiamo una presenza importante in Venezuela».

C'è poi la Russia.
Perché – chiede Expansion - l'Eni è una delle compagnie più dinamiche nel promuovere affari con la Russia? «Ci sono buone ragioni – spiega Scaroni - perché le compagnie del petrolio e gas mantengano una presenza dinamica in Russia: è uno dei paesi più ricchi in idrocarburi e gioca un ruolo chiave per l'Europa nella sicurezza delle sue forniture. Eni gode di un'ampia tradizione di buone relazioni commerciali con la Russia».
In particolare, la collaborazione tra Eni e Gazprom, iniziata nel 1969, si è sviluppata e rafforzata «significativamente». Nel 2006 è stato firmato un accordo strategico e nel 2007 Eni è entrata per la prima volta nel settore upstream (esplorazione e produzione) in Russia. «Oggi abbiamo il 30% di SeverEnergia, la sua unica associazione con compagnie non russe che opera in Yamal (Siberia occidentale), la regione che produce attualmente il 90% del gas russo».

D fronte alle preoccupazioni che il mondo stia per arrivare al limite della sua capacità di produzione di petrolio,
Scaroni osserva: «C'è molto petrolio. Per ora, il nostro pianeta ha la disponibilità di riserve chiamate sicure di oltre un miliardo di barili». Queste riserve – nota il manager - sono maggiori di tutto il greggio consumato da quando è iniziata l'era del petrolio, alla fine del XIX secolo. A queste riserve sicure si aggiungono quelle probabili e le possibili riserve aggiuntive. In totale, secondo Scaroni, si può contare come minimo su circa cinque miliardi di barili, «sufficienti per coprire il consumo mondiale per i prossimi 70 anni».
Expansion definisce «spettacolare» la progressione dell'Eni negli ultimi anni: la società petrolifera italiana, che per capitalizzazione «è la quarta dell'Ue e la prima dell'area mediterranea», ha incrementato del 50% la sua produzione di greggio e gas e commercializza un volume di gas «equivalente al triplo del consumo spagnolo».

martedì, maggio 18, 2010

Tutto passa e qualcosa non ritorna più


Tutto e un ciclo, si dice, ma ci sono cose che non ritornano più; il carbone per esempio. Guardate questo quadro di Telemaco Signorini. E' del 1881, si intitola "la via del fuoco". Mostra una via di Firenze; un negozio "vendita carbone all'ingrosso e al minuto". Era un tempo in cui uno si presentava lì con un cesto o una sporta; comprava un paio di chili di carbone e se li portava a casa per accendere la stufa.

Sembra un'epoca preistorica - eppure io me lo ricordo di quando, negli anni '50, a casa mia ci si scaldava con una stufa a carbone. Ma era già un tempo in cui il carbone era in declino. Il quadro di Signorini, invece, ci fa vedere ancora l'era del carbone al suo massimo fulgore. Sembrava dovesse durare per sempre, vero?

domenica, maggio 16, 2010

Giganteschi pennacchi di petrolio nel golfo del messico


Questa faccenda dell'esplosione del pozzo del golfo del Messico si sta facendo più preoccupante  - un incubo in effetti. Sembrava complessivamente una piccola cosa, ma sta peggiorando e non se ne vede la fine

Qui, sul New York Times abbiamo le ultime novità: giganteschi "pennacchi di petrolio", uno dei quali è lungo più di 15 km e largo più di cinque km. Questi pennacchi stanno esaurendo l'ossigeno nell'acqua e finiranno per uccidere tutti gli animali e le piante in vicinanza.  Secondo gli scienziati, si parla di cose come 25.000 e fino a 80.000 barili al giorno - mentre il governo degli Stati Uniti parlava fino ad ora di 5000 barili al giorno.

Insomma, un disastro che ricorda un po' i film dell'orrore, quando si vanno a stuzzicare creature sepolte da millenni e che sarebbe stato meglio lasciar dormire dove stavano

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dal New York Times

Giant Plumes of Oil Forming Under the Gulf
Jim Wilson/The New York Times


Scientists are finding enormous oil plumes in the deep waters of the Gulf of Mexico, including one as large as 10 miles long, 3 miles wide and 300 feet thick in spots. The discovery is fresh evidence that the leak from the broken undersea well could be substantially worse than estimates that the government and BP have given.

“There’s a shocking amount of oil in the deep water, relative to what you see in the surface water,” said Samantha Joye, a researcher at the University of Georgia who is involved in one of the first scientific missions to gather details about what is happening in the gulf. “There’s a tremendous amount of oil in multiple layers, three or four or five layers deep in the water column.”

The plumes are depleting the oxygen dissolved in the gulf, worrying scientists, who fear that the oxygen level could eventually fall so low as to kill off much of the sea life near the plumes.

Dr. Joye said the oxygen had already dropped 30 percent near some of the plumes in the month that the broken oil well had been flowing. “If you keep those kinds of rates up, you could draw the oxygen down to very low levels that are dangerous to animals in a couple of months,” she said Saturday. “That is alarming.”

The plumes were discovered by scientists from several universities working aboard the research vessel Pelican, which sailed from Cocodrie, La., on May 3 and has gathered extensive samples and information about the disaster in the gulf.

Scientists studying video of the gushing oil well have tentatively calculated that it could be flowing at a rate of 25,000 to 80,000 barrels of oil a day. The latter figure would be 3.4 million gallons a day. But the government, working from satellite images of the ocean surface, has calculated a flow rate of only 5,000 barrels a day.

BP has resisted entreaties from scientists that they be allowed to use sophisticated instruments at the ocean floor that would give a far more accurate picture of how much oil is really gushing from the well.

“The answer is no to that,” a BP spokesman, Tom Mueller, said on Saturday. “We’re not going to take any extra efforts now to calculate flow there at this point. It’s not relevant to the response effort, and it might even detract from the response effort.”

The undersea plumes may go a long way toward explaining the discrepancy between the flow estimates, suggesting that much of the oil emerging from the well could be lingering far below the sea surface.

The scientists on the Pelican mission, which is backed by the National Oceanic and Atmospheric Administration, the federal agency that monitors the health of the oceans, are not certain why that would be. They say they suspect the heavy use of chemical dispersants, which BP has injected into the stream of oil emerging from the well, may have broken the oil up into droplets too small to rise rapidly.

BP said Saturday at a briefing in Robert, La., that it had resumed undersea application of dispersants, after winning Environmental Protection Agency approval the day before.

“It appears that the application of the subsea dispersant is actually working,” Doug Suttles, BP’s chief operating officer for exploration and production, said Saturday. “The oil in the immediate vicinity of the well and the ships and rigs working in the area is diminished from previous observations.”

Many scientists had hoped the dispersants would cause oil droplets to spread so widely that they would be less of a problem in any one place. If it turns out that is not happening, the strategy could come under greater scrutiny. Dispersants have never been used in an oil leak of this size a mile under the ocean, and their effects at such depth are largely unknown.

Much about the situation below the water is unclear, and the scientists stressed that their results were preliminary. After the April 20 explosion of the Deepwater Horizon, they altered a previously scheduled research mission to focus on the effects of the leak.

Interviewed on Saturday by satellite phone, one researcher aboard the Pelican, Vernon Asper of the University of Southern Mississippi, said the shallowest oil plume the group had detected was at about 2,300 feet, while the deepest was near the seafloor at about 4,200 feet.

“We’re trying to map them, but it’s a tedious process,” Dr. Asper said. “Right now it looks like the oil is moving southwest, not all that rapidly.”

He said they had taken water samples from areas that oil had not yet reached, and would compare those with later samples to judge the impact on the chemistry and biology of the ocean.

While they have detected the plumes and their effects with several types of instruments, the researchers are still not sure about their density, nor do they have a very good fix on the dimensions.

Given their size, the plumes cannot possibly be made of pure oil, but more likely consist of fine droplets of oil suspended in a far greater quantity of water, Dr. Joye said. She added that in places, at least, the plumes might be the consistency of a thin salad dressing.

Dr. Joye is serving as a coordinator of the mission from her laboratory in Athens, Ga. Researchers from the University of Mississippi and the University of Southern Mississippi are aboard the boat taking samples and running instruments.

Dr. Joye said the findings about declining oxygen levels were especially worrisome, since oxygen is so slow to move from the surface of the ocean to the bottom. She suspects that oil-eating bacteria are consuming the oxygen at a feverish clip as they work to break down the plumes.

While the oxygen depletion so far is not enough to kill off sea life, the possibility looms that oxygen levels could fall so low as to create large dead zones, especially at the seafloor. “That’s the big worry,” said Ray Highsmith, head of the Mississippi center that sponsored the mission, known as the National Institute for Undersea Science and Technology.

The Pelican mission is due to end Sunday, but the scientists are seeking federal support to resume it soon.

“This is a new type of event, and it’s critically important that we really understand it, because of the incredible number of oil platforms not only in the Gulf of Mexico but all over the world now,” Dr. Highsmith said. “We need to know what these events are like, and what their outcomes can be, and what can be done to deal with the next one.”

venerdì, maggio 14, 2010

Con il mondo sulle spalle


Riceviamo e pubblichiamo da Emanuele Campiglio l'introduzione al suo libro "Con il mondo sulle spalle. Questioni globali e limiti alla crescita".
A questo link è possibile trovare il riferimento per acquistarlo, oppure per scaricarlo liberamente come .pdf (copyleft)  


created by Emanuele Campiglio


Gli ultimi tre secoli sono stati per la società umana un periodo di straordinario sviluppo, di cui le nostre condizioni di vita sono testimoni. Una grande parte del pianeta ha oggi facile accesso a cibo, medicine, elettricità, case riscaldate, acqua pulita, aeroporti, computer, informazioni e altre comodità che rendono la vita più lunga e più degna di essere vissuta.
Eppure, allo stesso tempo sembra aumentata anche la varietà ed intensità dei problemi. Esplosione della popolazione, povertà, dipendenza da risorse finite, inquinamento - un complesso insieme di fenomeni globali pare ora disegnare un futuro incerto e quanto mai articolato da gestire.
Per quanto proseguirà l’aumento demografico? Riusciremo a trovare alternative al petrolio? Sarebbe possibile sostenere una Cina dallo stile di vita americano? Può darsi – come sostengono alcuni – che il modello di sviluppo occidentale debba essere profondamente riformato, ponendo dei limiti alla crescita e un freno ai consumi. Ma come farlo?
Attraverso l’esposizione di fatti, teorie e prospettive future, il libro tenta di dare una risposta a questi fondamentali interrogativi, analizzando il dibattito contemporaneo e cercando di rendere la materia comprensibile anche a chi vi si avvicina per la prima volta.

giovedì, maggio 13, 2010

Il picco dei rifiuti?

Sul sito dell’Ispra è disponibile il consueto rapporto annuale sui rifiuti urbani relativo al 2008. Un primo dato significativo è il calo della produzione nazionale rispetto all’anno precedente, che si attesta a un valore di 32.471.591 tonnellate. Una tendenza analoga a quella dei consumi energetici, già commentata più volte su questo blog, strettamente connessa alla crisi economica iniziata nel 2008, che certamente produrrà una riduzione ancora più marcata nel 2009.

Un secondo elemento di riflessione è la produzione procapite dei rifiuti sintetizzata nella tabella allegata. Le regioni che guidano nettamente questa classifica non dignitosa sono la Toscana e l’Emilia Romagna, rispettivamente con 686 kg/abitante * anno e 680 kg/abitante * anno. Le regioni con la minore produzione di rifiuti sono quelle meridionali, ma incredibilmente esse sono praticamente affiancate da regioni molto ricche e industrializzate come il Veneto (494 kg/abitante * anno), il Piemonte (509 kg/abitante * anno) e la Lombardia (515 kg/abitante * anno).

Se i più bassi livello di consumo giustificano i valori delle regioni meridionali, cosa determina comportamenti così virtuosi nelle regioni del nord? Inoltre, i toscani e gli emiliani sono proprio degli inguaribili spreconi consumistici? Le risposte sono due, strettamente intrecciate tra di loro. I Comuni delle due regioni “rosse” adottano politiche spinte di assimilazione agli urbani dei rifiuti speciali prodotti dalle attività commerciali e artigianali, mentre quelli delle regioni iperconsumistiche del nord hanno scelto in maggioranza una gestione integrata dei rifiuti basata sulle raccolte differenziate domiciliari. Il primo motivo determina il mantenimento di sistemi di raccolta con grandi cassonetti stradali adatti a soddisfare più facilmente le esigenze delle utenze non domestiche, il secondo motivo riduce fortemente il conferimento di rifiuti diversi da quelli domestici. Quindi, come ho scritto in questo mio precedente articolo, le ragioni di queste apparenti incongruenze sono in gran parte politiche.


E infatti, anche nel 2008, le regioni del Nord continuano ad essere le più virtuose per quanto riguarda i livelli di raccolta differenziata. Come possiamo leggere agevolmente in questa seconda tabella, Trentino e Veneto hanno abbondantemente superato nel 2008 il 50%, obiettivo nazionale previsto per il 2009, Piemonte e Lombardia hanno scavalcato nettamente l’obiettivo del 45% stabilito dalla legge per il 2008. Tutte le altre regioni sono ampiamente inadempienti, con molte regioni, tra cui la Toscana, molto lontane persino dall’obiettivo 2007. Un maggiore approfondimento delle tematiche qui appena delineate le potrete leggere in questo mio documento sul sito di Aspoitalia.

martedì, maggio 11, 2010

Lettera di Aspo alle amministrazioni regionali



In questi giorni le autorità regionali e provinciali italiane stanno ricevendo una lettera aperta da parte di Aspo, inviata con lo scopo di focalizzare l'attenzione sull'alta probabilità di un imminente crash petrolifero , e di aumentare l'informazione pubblica riguardo all'indissolubile legame tra crisi economica e disponibilità geologica di idrocarburi.


8 maggio 2010

Oggetto: Nota informativa – Petrolio, economia e società

Egregio Sig. Presidente,
Ci permettiamo di sottoporre alla Sua considerazione la presente comunicazione, con l’obiettivo di contribuire al quadro conoscitivo nel settore energetico, che costituisce materia concorrente tra Stato, Regioni ed Enti Locali.

LA DISPONIBILITA’ DI PETROLIO A BASSO COSTO E’ IN DECLINO

Sussistono ragioni molto fondate per ritenere che la crisi finanziaria, partita nel 2007 in modo graduale ed evoluta nel 2008 in un vero e proprio ridimensionamento dell’economia globale, tragga in gran parte la propria origine nell’incapacità di estrarre petrolio greggio in quantità sufficienti, e a costi sufficientemente bassi, tali da sostenere la crescita imposta dall’economia aperta di mercato ormai affermata in tutto il mondo.
La medesima crisi e la conseguente diminuzione dei consumi ha senza dubbio avuto l’effetto, molto temporaneo, di rallentare l’incipiente deficit di petrolio, ovviamente al costo di un relativo impoverimento di molti Paesi e degli strati più svantaggiati delle relative (e sempre crescenti) popolazioni; l’attuale stabilizzazione dei prezzi del barile di petrolio oltre gli 80 dollari testimonia tuttavia che i fondamentali scatenanti non si sono modificati.
La relativa e modesta ripresa in corso non potrà che accentuare e avvicinare il momento in cui l’offerta di petrolio non potrà più fare fronte alla domanda minima sufficiente a sostenere la crescita necessaria a uno sviluppo armonico e al benessere diffuso.
La stessa Agenzia Internazionale per l’Energia e il Governo USA (cfr. Approfondimenti in fondo al testo) hanno diffuso per la prima volta un avvertimento che, se ben interpretato e seguito da azioni adeguate, potrà aiutare almeno ad attenuare gli effetti del prossimo “crash” petrolifero.

La nostra Associazione si permette di suggerire una particolare attenzione non soltanto al suddetto previsto evento, ma anche alla sua collocazione nel tempo, che è estremamente ravvicinata (entro 2-3 anni) e che di fatto rende difficilmente proponibili e praticabili programmi di riconversione a breve termine del sistema energetico e tecnologico.
Emerge qualche positivo elemento di speranza, almeno per il nostro Paese, rappresentato, a titolo d’esempio, dal vero e proprio “boom” del fotovoltaico, passato in pochi anni da una nicchia trascurabile a oltre 1.200 MW di potenza installata, e dell’eolico, la cui potenza installata presto raggiungerà i 5.000 MW, complessivamente contribuendo per quasi il 5% al fabbisogno nazionale di energia elettrica.
La via d’uscita è tuttavia stretta e lunga, e deve essere percorsa in fretta! Essa necessita un forte sostegno da parte di tutti i livelli di governo e amministrativi riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili, al risparmio e all'efficienza energetica e al trasporto sostenibile.

QUALCHE DATO SUL PICCO DEL PETROLIO

Il grafico sottostante è stato prodotto dal Dipartimento dell’Energia (DOE) del Governo degli Stati Uniti d’America a partire dai dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), agenzia intergovernativa dei Paesi OCSE, dedicata allo studio e alle previsioni sul futuro energetico mondiale.

La stessa figura prospetta un futuro energetico molto preoccupante, caratterizzato a breve dal picco della produzione di combustibili liquidi.





Si tratta di un evento storico già in corso, il cui momento critico è collocabile, secondo i dati AIE, tra circa 18 mesi, intorno al valore di 87 milioni di barili al giorno.

La produzione di petrolio convenzionale, che è in pratica tutto il petrolio con cui è stato alimentato il metabolismo sociale ed economico mondiale almeno negli ultimi 50 anni, ha superato un picco di capacità nel 2008, ed è prevista declinare con un tasso annuo del 4%.

L’apporto di petrolio non convenzionale, essenzialmente sabbie bituminose e altri progetti simili, non coprirà che in minima parte il deficit che si sta aprendo tra domanda e offerta.

Tale deficit è rappresentato, nella figura, dall’area bianca classificata come l'insieme dei progetti produttivi ancora da identificare, che si trova tra la porzione colorata della figura data dalla somma della produzione delle varie categorie di liquidi combustibili e la curva in colore blu scuro, che rappresenta le previsioni dell'AIE sulla domanda da oggi al 2030.

In altre parole, la parte colorata della figura rappresenta la realtà, la parte bianca l’immaginazione.
Questa quantità di petrolio “immaginario” ammonterebbe, nel 2030, alla cifra stratosferica di 60 milioni di barili al giorno, pari alla produzione attuale di sei produttori come l’Arabia Saudita.

I problemi, tuttavia, inizieranno molto prima, allorché la domanda inizierà a superare definitivamente l'offerta.
Purtroppo le scoperte di nuovi giacimenti, lungi dal ripetere i fasti dei tempi in cui furono individuati i grandi campi petroliferi che ci hanno generosamente servito per diversi decenni, dopo un picco a metà degli anni sessanta del secolo scorso, sono andate irregolarmente ma inesorabilmente calando e si attestano oggi intorno ad 1/5 dei consumi. Tali scoperte sono inoltre principalmente costituite da progetti petroliferi estremamente complessi dal punto di vista geologico e ingegneristico (per esempio in alto mare, in zone perennemente coperte da ghiacci, a profondità chilometriche, greggio di qualità scadente, contenente sostanze pericolose o da eliminare, complicate lavorazioni di enormi quantità di sabbie o di rocce).

Tale complessità si riflette, ovviamente e prima di tutto, in costi economici più alti e ritorni energetici minori (minore estrazione di petrolio per unità di energia spesa per estrarlo), aspetto, quest’ultimo, che, indipendentemente dalle quantità di petrolio ancora esistenti, definisce il “vantaggio” tramite il quale la struttura socio-economico-produttiva può continuare a svilupparsi.
Negli Anni Trenta del secolo scorso si utilizzava l’energia corrispondente a un barile di petrolio per estrarne cento, oggi con un barile se ne estraggono da dieci a quindici, e ciò pur tenendo conto degli enormi progressi tecnologici intervenuti nel frattempo!
La stessa crescente complessità della ricerca ed estrazione di petrolio si riflette anche, come purtroppo testimoniano le recenti cronache dal Golfo del Messico, in un aumentato rischio di incidenti dalle conseguenze particolarmente gravi e durature.
Da tempo la nostra Associazione ha divulgato ad ogni livello della società, dalle scuole elementari fino agli organi di governo dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali, l’entità, la tempistica e le possibili conseguenze del picco petrolifero, così come ora trovano conferma nel documento del Dipartimento dell’Energia del Governo degli Stati Uniti.
Il metabolismo sociale ed economico del nostro Paese, delle sue Regioni e città è ancora totalmente dipendente dalla fruibilità di combustibili liquidi a buon mercato.
Il panorama prevedibile nella fase di declino di disponibilità di tali combustibili è caratterizzato da costi crescenti degli stessi che si trascineranno dietro costi crescenti dell'energia in generale e delle materie prime (come si è visto nel periodo 2004-2008).
Tutti i settori produttivi, dai trasporti all’agricoltura, così come l’intero assetto economico e sociale soffriranno - in modo al momento imprevedibile - generando una riduzione delle disponibilità di beni, servizi e lavoro così come oggi li concepiamo.

Si rileva che l'attuale fase di sostituzione dei combustibili liquidi di origine petrolifera con il gas naturale può alleviare solo in minima parte i problemi per il settore dei trasporti.
La scrivente Associazione evidenzia quindi la necessità che l’azione politica e amministrativa si occupi nel più breve tempo possibile di garantire alla società il mantenimento dei servizi essenziali scoraggiando la deriva verso il superfluo e focalizzandosi verso la preparazione, sia materiale, sia culturale, di una comunità informata e resiliente, chiamata ad affrontare un periodo di diminuzione del flusso di beni e servizi senza per questo collassare o trasformarsi in qualcosa di diverso e sicuramente meno gradevole.
In questo quadro si evidenzia inoltre il carattere controproducente dei progetti di rilancio del paradigma vigente, rappresentati dall’ipotesi di incrementare l’uso del carbone e dal ritorno al nucleare, che sottendono l’idea non sostenibile della crescita materiale infinita.

Grati per la Sua considerazione, rimaniamo a disposizione per qualsiasi approfondimento.

Con Ossequio.

ASPO ITALIA

lunedì, maggio 10, 2010

Il mondo non crolla, per ora



Vedo da come vanno le borse oggi che le mie previsioni dell'altro giorno sono confermate. Avevo detto che era una fluttuazione e che non mi aspettavo il crollo del sistema economico. In effetti, sembra proprio che non ci sarà niente del genere.

Quello che vediamo succedere alle borse sono più che altro dei sintomi che ci dicono che il sistema è in difficoltà. Sono premonitori del crollo totale che, però, credo che non arriverà finché non vedremo l'inizio di un deciso declino della produzione petrolifera. A quel punto, sarà il si salvi chi può - scordatevi dell'Euro, dell'Unione Europea, della globalizzazione e di tante altre cosette.

Ma, per ora, la produzione regge. Finché regge la produzione, regge anche il sistema. Fino a quando? Ah, beh.... a ognuno la sua sfera di cristallo.....

domenica, maggio 09, 2010

Ma quanto è grande la perdita?



Questa immagine, dalla BBC, mette un po' in prospettiva la situazione del disastro del golfo del Messico. "Deepwater Horizon" per il momento ha causato la perdita di una quantità di petrolio abbastanza piccola rispetto ad altri eventi del genere.

Questo non vuol dire minimizzare la faccenda. Il problema è che, mentre nel caso di una petroliera - la Exxon Valdez per esempio - si sapeva esattamente quanto petrolio c'era nei serbatoi, qui non si sa esattamente quanto petrolio verrà fuori dal pozzo prima che in qualche modo si riesca a tappare il buco. E la situazione non è affatto buona. Se non ci si riesce in tempi brevi, allora il disastro potrebbe salire nella classifica, e non di poche tacche.


Da notare anche che erano quasi vent'anni che non si verificava una perdita di petrolio di grandi dimensioni - l'ultima è stata nel 1991. Questo ci porta a due riflessioni; la prima è che la crisi economica ha probabilmente portato un po' tutti a limare sui margini e forse anche sulla sicurezza. La seconda e che gli "spill" di trent'anni fa avvenivano in un mondo meno inquinato e malridotto di quanto non lo sia oggi. Può darsi che oggi sia più difficile per gli ecosistemi recuperare ai danni fatti.

Per finire, un'immagine, sempre presa dalla BBC che mostra le localizzazioni geografiche di dove questi "spill" sono avvenuti.


(nota: queste immagini mi sono arrivate da un collega che non mi ha passato il link esatto; se qualcuno lo può ritrovare, ringrazio in anticipo.)

Cosa diavolo è successo?

L'indice Dow Jones nell'ultima settimana, da Yahoo Finance

Che diavolo sta succedendo ai mercati? Follia, distruzione, miliardi bruciati, Grecia in fiamme e tutto il resto. In effetti, se ripensiamo a quello che è successo l'altro giorno; per un attimo si è spalancato l'abisso. Il Dow Jones ha perso 1000 punti in 10 minuti, cosa mai successa nella storia della borsa. L'abisso, appunto - è stato chiamato l "anomalia". Poi, tutto rientrato; la borsa recupera. Se guardate la cosa in prospettiva, vedete che quello che è successo e sta succedendo sembra essere una normale oscillazione; a parte la breve anoomalia. Vedete qui di seguito 5 anni di Dow Jones


Quello che posso dire io è che non vorrei che quelli che hanno messo insieme quello strano arnese che si chiama "la borsa" progettassero aerei oppure centrali nucleari. A parte questo, credo che non abbia troppo senso cercare la fine del mondo nell'indice Dow Jones, come non ha senso cercarlo nel pianeta Nibiru in arrivo. Non è successo niente che non faccia parte della normale pazzia che caratterizza le borse.

Le borse sono soltanto un sintomo di una situazione di stress di tutto il sistema economico che risente di una situazione difficilissima nell'approvvigionamento delle materie prime; petrolio e combustibili fossili per primi. Però, non siamo ancora alla fine del mondo. La produzione petrolifera "tiene" nonostante diastri come quello del golfo del Messico, il gas sta andando bene con prezzi in ribasso dovuti allo sfruttamento dello "shale gas", il carbone fa gravi danni all'atmosfera ma lo si continua a estrarre.

In un post di Gennaio, parlavo di "un anno di respiro per l'economia," riferendomi al fatto che non mi aspettavo grosse crisi produttive per quest'anno. D'altra parte, siamo comunque in discesa e l'economia sembra incapace di adattarsi alla necessaria contrazione senza questi sbalzi che chiamiamo crisi economiche. Quindi, il sistema si adatta a sbalzi: quello che vediamo potrebbe essere l'inizio di un nuovo trend negativo - ma non è il crollo. O perlomeno non mi aspetto che lo sia. Ma, con un po' di pazienza, ne vedremo succedere di cose.....

giovedì, maggio 06, 2010

In ricordo di un genio del cinema

In questi giorni ricorre l’anniversario della morte di uno dei più grandi registi della storia del cinema, Alfred Hitchcock. A mio parere il più grande. Ricordo ancora vividamente l’intensa emozione provata nella visione di quello che io ritengo il più bel film della storia del cinema, Rear Window (La finestra sul cortile). Dopo la sua morte, negli anni ottanta, furono rimessi in circolazione dagli eredi nelle sale cinematografiche alcuni suoi film degli anni '50, il suo periodo migliore, tra cui questo superbo esempio di metacinema, cioè di film che riflette su se stesso e sui propri meccanismi espressivi. La finestra sul cortile è un film claustrofobico, in cui la macchina da presa coincide con il punto di vista voyeristico di un eccezionale James Stewart che, bloccato da un incidente nel proprio appartamento, assiste dalla finestra al brulicare della vita nel microcosmo del caseggiato di fronte, scoprendo l’autore di un orrendo delitto con l’aiuto della fidanzata, un’indimenticabile Grace Kelly. Nonostante lo spazio ristretto della scena, Hitchcock riesce con la sua solita maestria a mantenere lo spettatore in tensione e attenzione costanti, grazie alla tecnica della “suspence” che lo stesso regista considera la quintessenza dell’arte cinematografica. A tale proposito, nel famoso libro “il cinema secondo Hitchcock” di Francois Truffaut, il celebre regista del brivido racconta l’aneddoto della moglie del produttore che, durante la proiezione della prima, talmente presa dalla trama, prende il braccio del marito scongiurandolo di fare qualcosa per evitare un epilogo tragico alla vicenda.
Per potere apprezzare completamente la qualità dei film di Hitchcock consiglio la visione in una sala cinematografica dotata di ampio schermo, ma non essendo sempre possibile, soprattutto per i film più vecchi, ci si può anche accontentare di vederli dalla poltrona di casa propria, tanto difficilmente ci si alza per andare a prendere qualche stuzzichino. E fate la pipì prima di accendere il televisore.
Tra le tante iniziative di commemorazione, il Corriere della Sera ne ha avviata una che comprende la distribuzione dell’ampia rassegna di film composti da Hitchcock. In questo articolo potete trovare una breve ma efficace sintesi visiva del lavoro del regista inglese, in cui si ammirano anche alcune scene del film più visionario ed attinente al tema del nostro blog, “Gli Uccelli”, splendida metafora di una Natura che si ribella alla prepotenza del genere umano.

martedì, maggio 04, 2010

La voragine infernale


Sandro Botticelli:  "La voragine infernale"


110 miliardi di euro ad Atene. Che probabilmente non basteranno. Ecco che tocchiamo con mano la scarsa efficacia di soccorsi "virtuali" (caratterizzati da grandi movimenti di riserve matematiche) a problemi fisici di base: il plateau petrolifero e minerario in genere.  Questa somma, oltre a foraggiare lautamente qualche ben posizionato intermediario, sarà probabilmente destinata a far sopravvivere come si potrà i sistemi esistenti.

Non ho sentito notizie che assicurino che l'obiettivo dell'aiuto sarà quello di spingere la Grecia verso una maggiore autosufficienza, energetica innanzitutto, basata sulle energie rinnovabili. Lo scopo è salvare il salvabile nel breve-medio termine. 

Ma la Grecia, come il sistema in genere, è simile a un lavoratore che si è infortunato. Per risolvere i suoi problemi non ha bisogno di una tantum di 1.000 €. Ha bisogno di cure mediche.

lunedì, maggio 03, 2010

L'ipercultura: vivere "on demand"


Botero's Mona *


Ispiratrice inconsapevole di questo post è mia madre, che tanto teme i miei discorsi sull'energia e sul futuro :-)

Nata nell'immediato dopoguerra ('46), ha trascorso la propria giovinezza in un ambiente contadino del tempo: duro lavoro, stanze fredde, nessuno spreco e cose di questo genere. A inizio anni '70 si è sposata ed è andata a vivere in una cittadina medio-piccola, dove lavorava mio padre.
Ora lei è abituata a uno stile di vita "da città": nessun problema di fornitura gas, acqua o elettricità, nessuna stufa a legna da mantenere e molto altro ancora. Ma la cosa che di lei non smetterà mai di sorprendermi è l'approccio: è come se avesse fatto un "erase" dei files datati ante 01/01/1970. Quando descrive la sua giovinezza, ne emerge subito il fatto che si disponeva solo di giocattoli poveri, che la televisione è arrivata tardi, che erano tempi di "scarsità" e privazioni su tutto. Un po' come quando un reduce anziano ricorda malvolentieri l'atroce esperienza dei lager.

Paradossalmente, oggi mi trovo in seria difficoltà nel spiegarle che mettere troppo detersivo per i piatti comporterà il fatto di gettarne l'eccesso ancora attivo nello scarico, nonchè problemi nel risciacquare decentemente le stoviglie;  che avere in casa 19, 20 o 22 °C cambia poco, se si sta seduti 3 ore davanti alla TV il freddo ai piedi viene comunque, per ovvie ragioni fisiche ;  " l'altra notte mi sono svegliata, ma perchè diavolo i termosifoni sono freddi, bisognerebbe fossero sempre un po' caldi " ...  voglio dire, ci provo e cerco pure di non essere insistente, ma lei dopo pochi minuti comincia a irritarsi.
Fortunatamente, finora ho trattenuto la battuta "Potremmo lasciare l'automobile accesa di notte d'inverno, così al mattino quando la si prende è già calda" ...

Ma la cosa che per me è ancora più curiosa è che non riesce a cambiare vision per nessun motivo, ad esempio la sola idea di integrare il riscaldamento a termosifoni con altre soluzioni (ad esempio, stufetta a legna, vestiti più pesanti, borsa dell'acqua calda ad emulazione del kotatsu) la gettano nell'isteria del "ritorno al passato" e del "regresso".
In pratica, se le cose non sono "iper" e "on demand", scatta in lei lo sconforto.

Non vorrei dare l'impressione di volermi accanire pubblicamente contro mia madre, avendo già un quasi -precedente  :-)   ;   queste considerazioni sono estendibili, almeno credo, a una moltitudine di situazioni e contesti analoghi. Insomma, alla problematica classe '40 (circa 2 generazioni fa), quella che ha realizzato e vissuto il boom economico.

L'Uomo, in prima battuta è un animale; solo in un secondo step riesce a sviluppare razionalità ed etica, che in parte risiedono in lui, in parte "racimola" (e sviluppa) dalle persone che incontra e dal bagaglio generale di studi ed esperienze che si fa.
Forse, proprio per questa sua natura, è condannato a oscillare tra mostruosi eccessi, alla disperata ricerca di un equilibrio che non riesce a padroneggiare.

*  L'immagine scelta è legata al fatto che la bisnonna materna, classe 1893, soleva esclamare " Che biga! " come segno di complimento nei confronti di una persona "grassoccia". Al tempo, il problema della sottoalimentazione era diffuso e una persona in carne era vista più in salute degli altri, indipendentemente dalla reale situazione clinica la cui conoscenza, al tempo, era anni luce da oggi