venerdì, luglio 31, 2009

Avrà ragione Obama?



Il presidente Obama ha detto ieri che stiamo vedendo "L'inizio della fine della recessione". Avrà ragione?

I dati li vedete più sopra (da Bloomberg): il Dow Jones industriale che è fra gli indici economici più rappresentativi della situazione. Su 5 anni di storia, vedete l'inversione di tendenza che è cominciata alla fine del 2007. Il 2008 è stato tutto un disastro, in particolare con la grande botta della fine dell'estate che ha fatto gridare all'apocalisse. Il declino è continuato nel 2009 con la "buca" di Marzo, ma da allora, siamo riusciti a risalire un po', tornando ai livelli dell'autunno del 2008.

Basta questo a gridare alla fine della recessione? Sembrerebbe un po' troppo presto. Quello che vediamo potrebbe essere una delle oscillazioni periodiche in una tendenza alla discesa, oppure un indizio di stabilizzazione dell'economia. Forse. Comunque bisogna aspettare Settembre per vedere se si ripete il crollo dell'anno scorso.

giovedì, luglio 30, 2009

La caduta dell'impero Romano: un modello dinamico



E' disponibile sul sito "ASPO-italia una traduzione in Italiano del testo in inglese della mia presentazione al convegno "Peak Summit" ad Alcatraz (Perugia) il 20 Giugno 2009.

Ringrazio Enrico Battocchi per essersi preso l'impegno di tradurre questo testo di oltre 11.000 parole. E' qualcosa che forse avrei dovuto fare io, ma non riesco quasi mai a tradurre in Italiano le cose che scrivo in Inglese e viceversa. Ci ho provato, ma già è che tradurre è una cosa noiosa (questo lo so perché nel passato ho fatto il traduttore per arrotondare lo stipendio). Poi, quello che succede quando mi metto a lavorare su qualcosa che ho scritto io, mi viene in mente di cambiare questo o quello e alla fine viene fuori che la traduzione è un testo completamente diverso da quello che avevo cominciato a tradurre.

E' un po' come essere Jeckill e Mr. Hyde; quando uno scrive in una lingua, pensa in quella lingua e viene fuori un certo tipo di testo. Non è assolutamente la stessa cosa scrivere in direttamente in inglese in confronto con tradurre in inglese un testo scritto in italiano. Mi è successo che una rivista ha fatto tradurre in inglese un testo che avevo scritto in italiano. La traduzione è stata fatta da un traduttore professionista. Diciamo che il risultato è corretto dal punto di vista sintattico e grammaticale. Però, spero che quell'articolo in inglese non lo legga nessuno.

Quindi ringrazio di nuovo Enrico Battocchi per essersi preso questo impegno. Fra le altre cose mi ha spiegato il suo metodo per tradurre che consiste nel leggere il testo a voce alta, traducendolo in italiano "sull'istante" e parlando a un sintetizzatore vocale. I risultati, mi dice, sono abbastanza buoni e basta poi una passata sul testo per metterlo a posto e renderlo corretto e leggibile. Non ho mai provato, ma mi sembra una buona idea, sicuramente migliore che tradurre laboriosamente parola per parola dalla tastiera.

Quindi, ecco il testo in Italiano e - se avete voglia di digerirvi 11.000 parole - buona lettura!

La caduta dell'Impero Romano: un modello dinamico.

domenica, luglio 26, 2009

Scarsità e ipernormazione


Scarsità e abbondanza secondo "wired magazine"

  • Regole a) tutto ciò che non è permesso è proibito, b) è permesso tutto ciò che non è proibito.
  • Modello Sociale a) Paternalismo (sappiamo cosa ci vuole per voi) b) Egalitarianismo ("Sappiamo da noi cosa ci vuole)"
  • Piano economico: a) modello di business b) troveremo qualcosa.
  • Processo decisionale a) dall'alto verso il basso, b) dal basso verso l'alto.
  • Struttura organizzativa a) comando e controllo, b) fuori controllo


Vedete qui sopra un'immagine da "wired magazine" . L'articolo da cui è presa è di Chris Anderson e si intitola "Tecnologia troppo a buon mercato per farla pagare; è tempo di pensare in termini di abbondanza piuttosto che di scarsità" L'articolo si riferisce alla capacità di immagazzinare informazione. Ma si può applicare altrettanto bene all'energia.

Dato che siamo oggi in una fase di scarsità di energia, il diagramma di Anderson spiega molte cose che stiamo osservando: Il paternalismo in politica, l'"ipernormazione" della società che diventa sempre più sclerotica e burocratica, le decisioni imposte dall'alto, l'organizzazione quasi militare dei processi decisionali che lasciano pochissimo spazio all'iniziativa individuale.

Apparentemente, come discuto in un mio post sull'impero romano, la società cerca di mantenere le strutture esistenti ma, non avendo più le risorse necessarie, cerca di riuscirci attraverso una normazione aggressiva. Appunto, ipernormazione; quella soffocante burocrazia paternalistica che ci sta opprimendo.

Può darsi, tuttavia, che stiamo andando verso un giro di boa con l'avvento di una fase di abbondanza di energia che ci può arrivare dalle rinnovabili. Se tutto continua ad andare come sta andando, possiamo sperare in una boccata d'aria per il futuro: meno burocrazia, meno norme soffocanti, meno ordini dall'alto. Detto in parole povere, "viva la libertà!"


A proposito di ribellarsi all'ipernormazione, ci da il buon esempio il sindaco di Firenze, Matteo Renzi:
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FIRENZE: SINDACO RENZI, DISOBBEDIENZA CIVILE CONTRO NO VINO A CHIOSCHI

Firenze, 23 lug. - (Adnkronos) - Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e' ''pronto alla disobbedienza civile contro i burocrati europei che vorrebbero vietare il gottino di vino insieme al panino col lampredotto o con la trippa''. Lo scrive lo Renzi su 'Facebook'. Renzi ''ha letto oggi questa decisione di Bruxelles - scrive il sindaco di Firenze - e pensa a che fine ha fatto la credibilita' delle istituzioni che vogliono vietare le nostre tradizioni...''.

A prevedere che non si possano piu' vendere e somministrare alcolici su area pubblica e' la legge comunitaria, approvata a fine giugno dal Parlamento, che entrera' in vigore gia' dal 29 luglio. Nel capoluogo toscano sarebbero a rischio 500 attivita', soprattutto 'trippai' e 'vinaini', negozi e chioschi che da centinaia di anni offrono salumi, trippa e lampredotto accompagnati da un bicchiere di vino o birra.

(Fas/Pn/Adnkronos)

venerdì, luglio 24, 2009

E io pago! - parte II



I sostenitori italiani del ritorno al nucleare asseriscono da tempo che il costo di produzione dell’energia nucleare è attualmente tra i più bassi a confronto con altre fonti energetiche e ciò dovrebbe indurre il nostro paese ad avviare un programma di costruzione di nuove centrali. Più volte su questo blog abbiamo avanzato il dubbio sull’esattezza dei conti filonucleari (personalmente con questo articolo).

In effetti, gli elementi che influiscono maggiormente a determinare il costo del kWh nucleare sono: 1) il costo d'investimento: qui i nuclearisti generalmente prendono a riferimento il costo preventivo unitario della centrale finlandese in costruzione, ma ad oggi i costi effettivi sono quasi raddoppiati. 2) la produttività annuale delle centrali: molti nuclearisti considerano addirittura 8000 kWh/kW (cioè un funzionamento alla massima potenza per quasi tutto l'anno), ma ci sono molti dubbi che ciò sia plausibile. 3) la vita operativa delle centrali, che viene portata dai nuclearisti a 40 anni ed oltre, ma ci sono molti dubbi che ciò sia plausibile. 4) il dato un po’ aleatorio del costo del denaro, che si può tirare da una parte o dall’altra in funzione del risultato che si vuole ottenere.

C’è però un modo con cui taglio la testa al toro di interminabili discussioni con qualche filonucleare. Se il costo di produzione dell’energia nucleare è così basso, allora le aziende private disponibili a investire nel nucleare si facciano pure avanti, a condizione però che non usufruiscano di finanziamenti pubblici diretti o indiretti. La mia esperienza è che, a questo punto, il nuclearista di turno o abbozza e cambia discorso, oppure comincia ad addentrarsi in una lunga dissertazione sulla riduzione delle emissioni di CO2 e dei costi esterni evitati con la costruzione delle centrali nucleari. Ma abbandoniamo velocemente questa digressione personale per addentrarci in molto più generali e concreti fatti nostrani.

Il governo ha approvato di recente una legge che prevede il rilancio del nucleare e l’Enel si prepara ad entrare in fase operativa per la costruzione di nuove centrali. Sentite un po’ cosa dichiara a proposito, sulle pagine di Repubblica, Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel. “Non chiederemo allo Stato né incentivi, né sussidi, ma ci affideremo al mercato. Per poter, però, rassicurare gli investitori che anticiperanno i capitali necessari, occorre una soglia minima garantita nelle tariffe di vendita”. Tradotto in parole povere, l’Enel chiede delle tariffe incentivate per la vendita del kWh nucleare che, ovviamente dovrebbero pagare gli utenti sulla bolletta, ma hanno anche la faccia tosta di dichiarare che si affideranno al mercato. Comunque, prosegue il giornale, “nell’ottica di Conti si tratta di un’assicurazione contro un’eventualità remota, perché l’Enel è convinta che l’elettricità nucleare sia più economica delle concorrenti (ci risiamo). Ma questo richiede una buona dose di ottimismo, perché i costi delle centrali nucleari sono massicci e crescenti. Inoltre, non è chiaro a quali tassi di interesse sarà possibile raccogliere i capitali necessari (ci risiamo)”. E infine, attenzione, “di fatto, il consumatore italiano si troverebbe a pagare per i prossimi decenni una bolletta più alta per sostenere i costi delle centrali Enel”. Come volevasi dimostrare. Anche in questo caso il grande Totò avrebbe esclamato: “E io pago !!”

Comunque, per la cronaca, nello stesso articolo di Repubblica, Conti spiega che “ognuno dei quattro impianti da 1600 MW che l’Enel progetta di costruire in Italia costerà almeno 4,5 miliardi di euro” Effettuando una semplice divisione, questo significa che il costo unitario di costruzione delle centrali sarebbe di circa 2800 euro/kW. Guarda caso almeno 1000 euro/kW in più di quello preventivamente ipotizzato per la centrale finlandese, da cui i nuclearisti fanno discendere la presunta competitività del kWh nucleare.

giovedì, luglio 23, 2009

La caduta dell'Impero Romano

Questa maschera d'argento è stata trovata nella zona della battaglia di Teutoburgo, del 9 d.c e di cui quest'anno ricorre il bimillenario. Era appartenuta a un cavaliere romano, quasi certamente ucciso in quella battaglia dove tre intere legioni guidate dal generale Varo furono annientate dai guerrieri germanici guidati da Arminio. Fu questa famosa battaglia che mise fine al tentativo di Roma di espandersi nell'Europa dell'est e che dette origine alla leggenda di Augusto che, nella notte, vagava nel suo palazzo gridando "Varo, Varo, rendimi le mie legioni". A 2000 anni di distanza, questa battaglia ci ricorda la pochezza degli sforzi umani. Tanta lotta, tanto sangue, gloria e disonore, coraggio e codardia - tutto per niente. Qualche anno dopo, Germanico, il nipote dell'imperatore Tiberio, ritornò in Germania con ben otto legioni, sconfiggendo Arminio che poi fu ucciso dai suoi stessi uomini. Ma Germanico non poteva conquistare la Germania nemmeno con otto legioni, non più di quanto Varo potesse restituire ad Augusto le sue tre legioni riportandole indietro dal regno dei morti. Chissà cosa avrebbe pensato il cavaliere romano proprietario di quella maschera d'argento se avesse saputo che, 2000 anni dopo, sarebbe stata pubblicata su una cosa chiamata "blog".

Sarà il caldo che mi da alla testa, ma in questi giorni mi sono messo all'anima di trasformare in un post la mia presentazione al convegno TOD-ASPO di Alcatraz. Il risultato sono 11.000 parole che trovate su "The Oil Drum" a

http://europe.theoildrum.com/node/5528

Se, come è probabile, non avete voglia di digerirvi un simile malloppo tutto intero, ve lo riassumo rapidamente. In sostanza, la mia posizione è che l'Impero Romano non è crollato per un singolo motivo. Partendo dalla teoria di Joseph Tainter e utilizzando i metodi di dinamica dei sistemi dei "Limiti alla Crescita", sostengo che l'Impero ha percorso un ciclo inevitabile guidato dai meccanismi di trasformazione e sfruttamento delle risorse di cui disponeva. Queste risorse erano sia agricole che militari. L'impero ha concluso il suo ciclo quando ha esaurito (o, più esattamente, sovrasfruttato) queste risorse. Alla fine del ciclo, si era contratto su un livello di complessità più ridotto che al suo fulgore, è quello che noi chiamiamo "collasso".

Non è la prima elucubrazione che scrivo sull'impero romano, ne trovate un altra, anche quella che discute di Teutoburgo a questo link su ASPO-Italia.

mercoledì, luglio 22, 2009

E io pago ! - parte I

L’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, ha annunciato qualche giorno fa, dalle pagine della Repubblica – Affari e Finanza, una proposta per stabilizzare i prezzi del petrolio, di cui avevo già anticipato qualcosa nell’articolo “Il paradosso di Epimenide”, al fine di garantire gli investimenti, preservare la crescita economica, incoraggiare un uso efficiente dell’energia, salvaguardare le produzioni alimentari, incoraggiare lo sviluppo delle energie rinnovabili e le nuove tecnologie estrattive. Secondo l’ENI, per concretizzare questa sorta di quadratura del cerchio, occorrerebbe stabilizzare il prezzo del greggio a un livello di equilibrio, in una fascia tra i 70 e gli 80 dollari al barile. Il sistema, frutto della fantasia e del genio tipicamente italiani, si chiama Blueprint, ma Scaroni mette subito le mani avanti: “La nostra proposta è, lo sappiamo, una provocazione, uno stimolo alla discussione, un invito a riflettere su un problema importante per l’umanità intera” e “sappiamo benissimo che è velleitario pensare che sia oggi concretamente attuabile”. Ma perché, invece di sondare, scavare ed estrarre, storiche “missions” dell’Azienda, l’ENI si trasforma in una specie di pensatoio petrolifero globale? Perché “siamo convinti che avere stabilmente una capacità di produrre petrolio in eccesso rispetto alla domanda riduca drasticamente le oscillazioni dei prezzi”. E già qui cominciamo a capire qualcosa, la dinamica dei prezzi non è attribuibile alla categoria malefica degli speculatori, ma all’andamento della produzione che, a differenza di “quando il petrolio costava 10 dollari al barile” fa fatica a soddisfare la domanda. Sempre secondo Scaroni, al prezzo attuale del barile, le compagnie avrebbero “adeguati ritorni dai loro investimenti” sulla base delle previsioni dei prezzi futuri, ma i paesi produttori, le cui economie dipendono da prezzi e quantità attualmente in calo, non investirebbero più nell’aumento della capacità produttiva. Qui non lo seguo molto, ma andiamo avanti. Gli strumenti per calmierare il prezzo del petrolio su cui, secondo Scaroni, “nasce lo scetticismo, che condivido”, dovrebbero essere definiti e resi operativi da un’Agenzia globale che potrebbe essere uno sviluppo dell’International Energy Forum con sede a Riyad. Boh, mi viene da dubitare, chi ci starebbe dentro questo nuovo organismo e come si metterebbero d’accordo? Ma mi consolo pensando che Scaroni probabilmente condividerebbe il mio scetticismo. Veniamo infine al succo della proposta denominata Blueprint, che leggiamo nella scheda allegata all’intervista: un “fondo di stabilizzazione che verrebbe accumulato nel tempo e utilizzato per mantenere un adeguato livello di investimenti anche quando i prezzi del greggio lo scoraggerebbero” e “l’eccesso di capacità”. L’eccesso di capacità spiega Leonardo Maugeri, direttore dell’ENI, “è l’elemento essenziale per stabilizzare i prezzi” necessario ad assorbire le tensioni del mercato. Naturalmente, continua Maugeri, “…per avere un eccesso di capacità strutturale al servizio della sicurezza energetica, bisogna che sia remunerata. Per remunerare l’eccesso di capacità rendendolo strutturale ed equamente distribuito, abbiamo immaginato un mercato nel quale i produttori offrono eccesso di capacità certificato dall’Agenzia, e i consumatori acquistano il diritto di accedere a quella capacità nei momenti di crisi dotandosi così di una sorta di assicurazione”.
E adesso forse abbiamo capito, altro che filantropia verso i destini dell’umanità, i consumatori, cioè tutti noi, dovrebbero pagare ai produttori (quindi anche all’ENI), i costi aggiuntivi di investimenti non più remunerativi ai prezzi di mercato a causa dei sempre maggiori costi di estrazione e produzione. Insomma, una via tutta italiana al picco del petrolio, alle spalle del contribuente. Avrebbe detto il grande Totò: “E io pago !!”

lunedì, luglio 20, 2009

I rifiuti fra Napoli e Capannori



Questo è il resoconto di una presentazione sui rifiuti che ho fatto qualche tempo fa in un comune toscano. Non è una trascrizione, ma una versione scritta a memoria che cerca di mantenere il tono e la sostanza di quello che ho detto.



Buonasera a tutti e grazie di essere qui stasera. Oggi sono qui in sostituzione di Alessio Ciacci, assessore all'ambiente del comune di Capannori. Quindi, cercherò di raccontarvi quello che so sull'esperienza di Capannori con la raccolta porta a porta. Prima di andare nei dettagli, però, vorrei cercare di inquadrare la faccenda un po' in generale.

Quindi, pensavo di cominciare raccontandovi una storia. E' a proposito di Napoli, dove ho fatto parte della commissione prefettizia per i rifiuti nel 2007, al tempo del governo Prodi. Premetto - solo per chiarire rapidamente - che questa cosa l'ho fatta gratis; non mi hanno nemmeno rimborsato le spese. E' una vita che sto cercando di capire dove si fa domanda per avere le consulenze d'oro. Anzi, se qualcuno di voi mi sa dire a che sportello rivolgersi, mi farebbe comodo. Ma lasciamo perdere.

Al lavoro della commissione sui rifiuti di Napoli ho contribuito piuttosto poco. Non che non abbia cercato di fare del mio meglio, ma è stato per questioni di distanza e anche perché, quando ho cominciato, della situazione di Napoli non sapevo molto. Però è stata una cosa estremamente interessante. Una delle cose interessanti è stata proprio Napoli e anche i Napoletani. Una città splendida, se mi dite stasera "partiamo per Napoli fra un'ora"; beh, io ci vengo. A Napoli ci vado sempre volentieri se appena ho una scusa per andarci. E questa è anche una cosa che ti fa rabbia che Napoli e i Napoletani siano stati così umiliati per questa faccenda dei rifiuti. Esposti al pubblico ludibrio in tutta Europa e in tutto il mondo - come se fosse colpa loro. Ci sono delle colpe su questa faccenda e sono sparpagliate a tanti livelli; ma Napoli è stato additato come un paese di barbari incivili, e questo non è vero. Non c'è bisogno che ve lo dica io, credo; ma la faccenda va capita.

Allora, l'errore di base che era stato fatto a Napoli al tempo di Bassolino era stato quello di chiudere le discariche prima di avere un sistema alternativo a disposizione. Credo che Bassolino è i suoi credessero veramente di fare una cosa buona che avrebbe reso Napoli una città più "moderna". Come si dice, le strade dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni. Nella pratica, è stato un disastro. Le discariche erano chiuse, non c'era un posto dove mettere i rifiuti: e allora non c'è da stupirsi se rimanessero per le strade. Per la verità, le cose sono più complicate di così ed è probabile che sulla crisi più di uno ci abbia marciato sopra; un po' per farsi pubblicità, un po' forse anche per tornaconto personale. Ma, alla fine dei conti, quello che non sai dove buttare, alla fine ti si accumula sotto le finestre.

Così, a partire dal 2007, la commissione prefettizia sui rifiuti di Napoli ha fatto una cosa che, nel complesso, era abbastanza semplice: un piano che prevedeva la riapertura delle discariche. Il piano è stato applicato e alla fine l'emergenza si è risolta. Mentre la commissione lavorava, è cambiato il governo ed è andata a finire che il merito di aver risolto la crisi è andato tutto a Berlusconi, il quale è stato veramente molto bravo a sfruttare la faccenda in senso propagandistico. Invece, tutto il ludibrio si è scaricato sul ministro dell'ambiente del governo Prodi, Pecoraro Scanio. Ora, io credo che Pecoraro sia stato un pessimo ministro dell'ambiente per tante ragioni ma, sulla faccenda dei rifiuti di Napoli, non aveva senso prendersela con lui. E' curioso pensare che se il governo Prodi fosse rimasto in carica altri sei mesi, il vanto di aver risolto la crisi di Napoli sarebbe andato a Prodi, e forse anche a Pecoraro Scanio. Ma è così che funziona la politica.

Ma quello che vi volevo raccontare è un'altra cosa. Come membro della commissione sui rifiuti di Napoli, ho imparato tante cose, conosciuto tantissime persone in gamba, dentro e fuori la commissione. Per me, come per loro, il problema non si poteva risolvere soltanto riaprendo le discariche. Il problema si doveva risolvere principalmente con delle buone pratiche di gestione. Allora, sappiamo quali sono queste buone pratiche. Separare i rifiuti alla fonte: raccolta differenziata, possibilmente porta a porta.

Bene, con questa idea di separare i rifiuti alla fonte ci siamo scontrati contro un muro di sfiducia spaventoso. Sfiducia a tutti i livelli; dal prefetto al barista del bar all'angolo. Separare i rifiuti a Napoli? Ma voi siete pazzi! A Napoli, certe cose non si possono fare.

Questa sfiducia è una cosa terribile. E' l'equivalente sociale di una malattia che si chiama depressione. Avete mai conosciuto qualcuno depresso? Intendo dire, certe volte uno lo dice, "stamattina mi sento depresso". Si dice per scherzare. Ma uno che ha la depressione per davvero, non è che ci scherza sopra. Sta proprio male da cani. Tipicamente, se ne sta seduto li' fermo, magari al buio e se gli dici "fai una passeggiata", oppure "perchè non vai al cinema", ti risponde "e perchè dovrei?". Non è una cosa da scherzarci - la depressione - a parte stare male, ti porta al suicidio. E' una cosa molto seria.

Ora, la depressione per il singolo si può risolvere con una pasticca di Prozac, ma non c'è un Prozac sociale da dare ai politici e ai votanti. Eppure, la cosa ci somiglia molto. Quando vai a proporre delle soluzioni, delle idee, ti scontri davanti a un muro di "non si può fare". E' esattamente la stessa cosa che con un depresso.

Com'è che a Napoli - e non solo a Napoli - ci siamo ridotti in questo stato? Com'è che non riusciamo a trovare nessuna soluzione ai problemi altro che affidarci a qualcun altro che ce li risolva mentre noi guardiamo la televisione? Non è solo questione di rifiuti. Succede lo stesso con l'energia. Mettersi all'anima di installare pannelli fotovoltaici è un'impresa - e poi fanno di tutto per scoraggiarti. Così, finisce che uno ci rinuncia. Ti viene la depressione per davvero; ti piazzi alla televisione a guardare l'Isola dei Famosi e pensi, "faranno le centrali nucleari". E così, si aspetta sempre che qualcuno ci risolva i problemi che non riusciamo a risolvere da soli. Ci pensino loro, il governo, le autorità, insomma, chi di dovere.

Ora, io credo che questo atteggiamento sia alla base del problema che abbiamo con i rifiuti. Una volta, i rifiuti urbani non erano un gran problema. Nei centri urbani c'erano gli spazzini che passavano da casa e raccoglievano i rifiuti porta a porta. Fuori città, non c'era nemmeno questo servizio. Non serviva; i rifiuti erano quasi completamente organici: li si buttavano nel campo e si faceva compost. Si ricorda mia moglie che meno di cinquanta anni fa, a casa sua - che era in periferia, non in campagna - non arrivavano gli spazzini; i rifiuti si sparpagliavano nell'orto. Poi venne fuori che bisognava pagare per forza la tassa sui rifiuti, anche se non se ne producevano; anche se uno li buttava nell'orto. Già vedete da questa piccola storia come le cose siano state organizzate fin dall'inizio per farti produrre più rifiuti possibile: tanto devi pagare lo stesso!

Allora, se uno volesse pensare male - e non fatemi fare il complottista - penserebbe che il modo che abbiamo di gestire i rifiuti sia studiato apposta perché sia inefficiente. Anzi, che sia studiato apposta per farci produrre quanti più rifiuti possibile. Pensateci un attimo: nessuno misura quanti rifiuti producete in casa vostra. Dovete pagare la tassa sui rifiuti indipendentemente da quanti ne producete; e questo già e un bel disincentivo a produrne di meno. Poi ci sono questi cassonetti per la raccolta differenziata. Potete buttarci dentro tutto quello che volete. Nessuno controlla cosa ci va dentro - si, in teoria ci sono delle multe per il conferimento improprio. Dalle mie parti, ogni tanto il comune fa la voce grossa: se buttate nei cassonetti la roba che non dovete buttarci, vi facciamo la multa. Ma cosa volete fare? Un vigile per ogni cassonetto? Una telecamera spia per ogni cassonetto? Follia. Anche questo metodo, sembra fatto apposta per far si che la separazione dei rifiuti sia difficile e costosa. Poi, andate a vedere il cosiddetto "organico" che viene fuori dai cassonetti con sopra pomposamente scritto "un fiore dai rifiuti". Eh, beh, nelle vostre fioriere quella roba li non ce la buttereste.

Poi ci sono vari stadi di separazione e trattamento - non vi sto a entrare in dettagli. Ma guardiamo soltanto il punto finale della catena: l'inceneritore. Parlavo di inefficienza e l'inceneritore è proprio il massimo, Un vero monumento all'inefficienza.

Che l'inceneritore sia inefficiente, non è una cosa controversa. Ci sono molti ottimi studi che lo dimostrano. Se avete voglia e tempo, potete cercarvi quelli del prof. Sergio Ulgiati, per esempio. Vedrete che dei tre metodi principali usati per smaltire i rifiuti, incenerimento, discarica, e riciclaggio, l'inceneritore è il meno efficiente; di gran lunga. Poi, potete andare a vedere il sito di Terna e verificare quanta energia producono i cosiddetti "termovalorizzatori." Senza esagerare, perchè c'è chi ha detto che non producono niente, ma non è vero. Gli inceneritori con recupero energetico producono qualcosa; ma molto poco. Secondo i miei calcoli, producono meno dell'1% dell'energia elettrica totale prodotta in Italia. Questo se si va a calcolare l'energia netta, attenzione. Energia netta vuol dire l'energia che l'inceneritore produce meno l'energia che bisogna dare all'inceneritore perché la produca. Questo è il trucco dei sussidi del famoso CIP6. Ma non fatemi entrare nei dettagli; ci perderemmo troppo tempo.

Ma quello che volevo farvi notare è come il dibattito - chiamiamolo così - non parla quasi per niente dell'efficienza dell'incenerimento. Tutta la polemica contro l'inceneritore si basa sul concetto che sono pericolosi per la salute. Nanopolveri, diossine e tutto il resto. Ora, non mi fate dire che gli inceneritori puliscono l'aria. C'è chi l'ha detto, ma non è vero: sicuramente gli inceneritori non fanno bene alla salute. Ma ci dobbiamo domandare come mai tutta questa polemica su queste cose non abbia portato a niente, anzi, tutti i maggiori partiti politici hanno gli inceneritori nei loro programmi. Allora, dobbiamo domandarci che cosa c'è che non funziona. Come mai una tecnologia che è tanto inefficiente, impopolare, e anche di sicuro non salutare - va per la maggiore, così che tutti i politici la vogliono?

La mia interpretazione è che il movimento contro gli inceneritori ha sbagliato completamente la strategia. Esattamente come ha sbagliato tutto il movimento contro l'energia nucleare. Tutti e due hanno cercato di spaventare la gente e questo non ha funzionato.

Spaventare la gente è una tattica ben nota. La usano i governi, vi ricordate delle "armi di distruzione di massa"? E poi, visto che siamo a parlare di Napoli, la usa anche la Camorra. Serve per far chiudere in casa la gente. Se sei un camorrista, va benissimo così - è una tattica perfetta - basta sparare nelle gambe di qualcuno ogni tanto. Funziona. Il problema è che se non sei un camorrista o se non hai a disposizione almeno un canale TV di quelli nazionali, è meglio che non ti ci metti perché troverai sempre qualcuno che spaventa la gente di più e meglio di te.

A Napoli, ci sono stati vari comitati contro l'inceneritore. Ma, con i rifiuti sotto le finestre di casa, la gente ha avuto più paura di finire sommersa da rifiuti che vedeva benissimo che dalle nanopolveri, che non vedeva. E' questo che ti genera quella cosa che ho descritto prima; quello che ho detto che è una forma di depressione sociale. A furia di spaventare la gente, gli viene la depressione. Alla fine, se hai a che fare con gente depressa non puoi fare nulla.

Ora, non è che da qualche parte un gruppetto di complottisti si è riunito in una stanza buia per decidere "adesso creeremo una falsa emergenza a Napoli," no, questo sicuramente non è successo. L'emergenza c'era davvero ed era il risultato dell'inefficienza del sistema. Ma il sistema è inefficiente per delle ragioni e una delle quali è che l'inefficienza si nutre di emergenza - e viceversa. Pensate ai militari mandati a raccogliere i rifiuti di Napoli. Bravi ragazzi, ma non era il loro mestiere - pensate all'inefficienza di avere della gente addestrata per la difesa del paese e trasformarli in spazzini. Non ha senso.

Qualcosa di simile succede anche per gli inceneritori. Solo con lo spauracchio dell'emergenza si può sostenere che dobbiamo pagare un extra nella nostra bolletta elettrica per sostenere delle macchine così inefficienti. Gli inceneritori si nutrono di emergenza - è perchè sono inefficienti. No emergenza, no inceneritori. Così vanno le cose. Allora, il movimento cosiddetto, fra virgolette, ambientalista con la sua polemica sopra le righe sugli effetti sulla salute degli inceneritori ha creato ulteriore emergenza con lo spaventare la gente. La gente, spaventata, ha lasciato perdere e ha detto "qualcuno ci risolva il problema, non ci importa come". E così, via libera all'inceneritore.

Ora, non mi fate dire che si devono tacere alla gente i rischi di certe cose. Assolutamente no. Le cose vanno dette, e vanno dette come stanno. Ma bisogna fare dell'informazione corretta. Le fesserie che dici, poi te le ritrovi. E' come nei film americani, quando il poliziotto ti dice "tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te". E' vero, succede proprio così - devi stare estremamente attento a essere corretto - cosa di cui il movimento anti-inceneritori si è spesso dimenticato, lanciandosi in polemiche molto discutibili. Anzi, alle volte proprio sbagliate. Ma, soprattutto, è proprio una questione di strategia: non bisogna spaventare la gente; bisogna dire alla gente che cosa fare. Nel caso dei rifiuti, si tratta di far vedere concretamente come si può fare a meno dell'inceneritore. Se ci si riesce, non serve più mettersi a litigare. E come quando cercano di venderti un'enciclopedia per telefono: non è che devi perdere tempo a spiegare cose strane. Gli dici che non ti serve, ringrazi e riattacchi. Lo stesso se ti propongono l'inceneritore: non ci serve, grazie.

E ora siamo arrivati a Capannori dove sono state fatte, appunto, delle cose concrete e positive nel campo dei rifiuti. Sono partiti dalla raccolta porta a porta. Non è stato facile. Mi raccontava Eugenio Baronti, che era assessore all'ambiente a Capannori quando hanno cominciato, che ci sono state delle polemiche incredibili. Mi ha detto che quelli che non volevano il porta a porta gli buttavano i sacchetti di spazzatura nel giardino di casa sua. Poi, invece, una volta che la cosa è partita, alla gente è piaciuta molto. Oggi hanno fatto delle inchieste e il gradimento per la raccolta porta a porta a Capannori è oltre il 70%. Tanto è vero, che alle ultime elezioni, tutti i candidati avevano promesso che l'avrebbero potenziata.

Un bel risultato, ed è anche strano perché la gente si deve ricordare che ogni giorno deve mettere fuori dalla porta un tipo diverso di rifiuto. Carta, organico, indifferenziato, eccetera.... Sembra incredibile che la gente ne sia contenta e invece è così. Ci vuole un po' di fiducia nella gente. La "gente" non è una banda di imbecilli - la gente è tua moglie, i tuoi figli, e anche tu.

Ora, la raccolta porta a porta è una cosa abbastanza rivoluzionaria. Non so se ci avete fatto caso. Avete capito perché? No... non ci avete pensato a fondo. Ma è facile capirlo; basta che ci pensiate su un attimo. E' rivoluzionaria perché inverte una tendenza ormai inveterata nella gestione dei rifiuti. E' rivoluzionaria perchè non incoraggia la gente a produrre sempre più rifiuti! Anzi, li incoraggia a produrne di meno; specialmente nella versione che chiamano "puntuale", il che vuol dire che paghi in proporzione alla quantità di rifiuti che produci. Meno produci, meno paghi, fantastico! Quindi, finisce che si producono meno rifiuti. Il cittadino risparmia e la società pure. E se non ci pensavano a Capannori, in Toscana non veniva in mente a nessuno! Il problema è che se i cittadini e la società risparmiano, qualcuno guadagna di meno. E' per questo che la cosa è rivoluzionaria. Ed è per questo che trova opposizione.

A Capannori sono stati anche più rivoluzionari di così. Se i vostri rifiuti li portate all'isola ecologica; tutti ben separati in carta, metalli, eccetera, ve li pesano e vi danno una ricevuta. E poi, a fine mese, vi mandano un assegno per tutti i rifiuti che avete portato. Nessuno ci fa i soldi sopra in questo modo - magari a fine mese hai fatto qualche decina di euro. Uno potrebbe dire che non ne vale la pena, ma è l'idea che conta. Vuol dire che il cittadino ha una scelta. Vuol dire che può fare altre cose oltre che semplicemente pagare tutti i mesi senza poter protestare, a parte ogni cinque anni mettere una crocetta per scegliere uno o un altro che poi ti faranno pagare uguale. Vuol dire che il cittadino ha un ruolo attivo: fa delle cose. Non è depresso perchè nessuno si diverte a spaventarlo.

E' per questo che ci sono state tante polemiche su Capannori e sulla raccolta porta a porta. Ce ne sono tuttora e ovunque troverete qualcuno che cercherà di spaventarvi e di dirvi "non si può fare". Beh, non ci cascate. Lo so che a questo punto vi sta venendo sulla punta della lingua lo slogan di Obama, avete capito cosa voglio dire. Non credo che Obama abbia mai parlato della raccolta porta a porta, e neppure che sia stato a Capannori (Credo che il posto gli piacerebbe, comunque, perché non l'hanno fatto li', il G8?). Ma il concetto è quello. Si, lo possiamo fare.

Allora, per concludere vorrei dire che non tutto si può risolvere con la raccolta porta a porta. Anzi, bisogna stare molto attenti a evitare un errore comune. Quello di mitizzare la frazione differenziata. 70%, 80%, quello che sia. Non è tanto la questione di quello che si raccoglie, quanto quello che si fa di quello che si raccoglie, ovvero quello che si ricicla. Nel campo dei rifiuti, tutto sta cambiando. Cambiano le quantità, le composizioni, il valore dei rifiuti. E stiamo vedendo un cambiamento epocale: in tutto il mondo si cominciano a produrre meno rifiuti come risultato della minor disponibilità di materie prime. Con meno rifiuti, comincia a essere sempre più difficile proporre e sostenere soluzioni inefficienti - come gli inceneritori - che si giustificano solo in vista di emergenze. Via via che ci muoviamo in questa direzione diventerà sempre più importante gestire i rifiuti in modo efficiente e economico - riciclandoli il più possibile.

Purtroppo, ci sono degli interessi economici che sono trincerati nei vecchi metodi; per cui non ci possiamo aspettare che le cose cambino in tempi brevi. Ci vorrà del tempo per vedere sparire gli inutili sussidi agli inceneritori. Ancora più tempo ci vorrà per veder sparire gli inceneritori stessi. Ma già ora possiamo prendere in mano le cose da noi. L'esperienza di Capannori ci dimostra che è possibile. Ci vuole buona volontà e concentrarsi su fare cose positive; ovvero non perdere tempo in polemiche inutili (e soprattutto, non spaventare la gente). E non ci sono solo i rifiuti su cui lavorare. A Capannori troverete anche altre soluzioni che richiedono un po' di partecipazione da parte dei cittadini. Latte appena munto "alla spina", detersivi e altri liquidi alla spina nei negozi, acqua gratis dalle fontane pubbliche e altro. Tutte cose che, se le proponete, vi diranno "non si può fare". Bene, invece si può fare. Vi viene in mente Obama? Non importa, basta pensare a Capannori.


venerdì, luglio 17, 2009

Emotività nucleare

Mr. Monthgomery Burns. Personaggio del noto cartoon "I Simpson", è il ricchissimo proprietario della centrale nucleare in cui lavora Homer Simpson; tra le proprie forze incorpora dipendenti volutamente incapaci, o morbosamente attaccati a lui. Anzianissimo, e' un uomo avido e disonesto.


E' stato recentemente segnalato da Luca Mercalli, e archiviato in Aspoitalia, un articolo di Sergio Zabot a proposito della politica nuclearista italiana. Propongo qui un post-abstract, che vuole essere un "ponte" per arrivare al documento completo dell'Autore.

Una cosa poco evidente, a 22 anni dal referendum sul nucleare, è che l'attuale rientro dell' Italia nella filiera dell'energia atomica è dovuto a un'ondata altrettanto emotiva e ideologica di quella di allora (che era andata nel verso opposto). I "sostenitori" delle centrali nucleari evocano paure quali la "fine del petrolio", l'inaffidabilità dei paesi esportatori di gas naturale, l'ineluttabilità di uno sviluppo per cui volenti o nolenti necessiteremo di sempre più energia, la riduzione dei gas a effetto serra.

Questa ideologia sottende invece interessi di grandi gruppi industriali; per creare concentrazione economica e finanziaria nelle mani di pochi eletti non c'è nulla di meglio di una filiera complessa come quella nucleare.
Per sostenere la necessità di realizzare in Italia impianti nucleari, vengono diffuse ad arte menzogne che fanno leva sull'emotività; ecco le bugie e le paure indotte più ricorrenti.


BUGIE


- In Italia paghiamo cara l'energia elettrica perchè abbiamo centrali termoelettriche e non nucleari, e dobbiamo compensare con le importazioni

Falso. Sono altri i fattori: meccanismi di formazione del prezzo nella borsa elettrica, gli "oneri generali di sistema", l'inadeguatezza/obsolescenza della rete elettrica nazionale, l'impatto di tasse+iva (il tutto, confrontato con gli altri Stati UE).
In sintesi, l'alto costo dell'elettricità italiana è dovuto ai privilegi di cui ancora godono i vecchi monopolisti, i produttori di elettricità e i petrolieri, all'inefficienza dell'infrastruttura e alla voracità dello Stato.


- In Francia l'energia elettrica costa meno grazie al nucleare

Falso. Si tratta del cavallo di battaglia dei fautori del nucleare, che però non hanno capito l'intimo e storico rapporto che esiste tra nucleare civile e militare. Grazie all'azione politica di De Gaulle, la Francia ha potuto raggiungere la leadership del polo nucleare europeo, necessario per motivi di bilanciamento dei rapporti di forza politico-strategici tra USA, URSS ed Europa. Il nucleare civile francese è nato in simbiosi con quello militare; qualunque reattore di oggi processa Uranio e dà come sottoprodotto (tra gli altri) il Plutonio, perfetto per le testate atomiche. I Francesi pagano questi costi occulti, ma in modo indiretto, nelle tasse che versano allo Stato, e non nella bolletta energetica.

- Le centrali nucleari non emettono gas serra

Falso. La produzione dell'Uranio è un'attività mineraria e chimico industriale molto complessa ed energivora. Il minerale estratto, l'Uranite, si trova combinato con altri ossidi metallici, e contiene circa lo 0,15% in peso di Uranio; questo va arricchito per portare la parte fissile (isotopo U235) dallo 0,7% al 3,5%.
Si tratta di un processo molto costoso in termini di energia e materie prime: combustibili fossili, acqua, elettricità, Acido Solforico e Fluoro.
Solo l'attività-core della centrale nucleare non comporta emissioni di CO2.
A valle, la fase del ritrattamento delle scorie comporta costi di gestione, trasporto, processamento e interramento elevatissimi.
Ad oggi, una centrale nucleare comporta l'immissione di circa 1/3 della CO2 che immetterebbe un'equivalente centrale a gas a ciclo combinato.
Nel tempo, naturalmente, i giacimenti di uranio andranno "esaurendosi" (secondo i dati, siamo già al picco dell'Uranio) e l'attività di estrazione-concentrazione diventerà sempre più pesante nel ciclo.


PAURE


- La sicurezza dell'approvvigionamento energetico

Per convincere l'opinione pubblica, si menziona il fatto che petrolio e gas provengono da zone instabili politicamente; forse non tutti sanno che a livello mondiale, meno del 30% dell'uranio utilizzato proviene da Paesi "stabili" (Australia, Canada, USA); altrettanto proviene da paesi giudicati "instabili" (Stati dell'Europa centrale, dell'Africa, Russia). Il restante quasi 50% proviene dallo smantellamento degli arsenali militari. La caccia all'Uranio è oramai un'attività routinaria dei capi di stato. Nicolas Sarkozy, ad esempio, si è assicurato i diritti sullo sfruttamento in moltissimi giacimenti del Congo e del Niger. Inutile sottolineare che proprio a causa di questi interessi occidentali in paesi sottosviluppati, la lotta politica interna per il controllo del potere assume aspetti di guerra civile ed è destinata a intensificarsi.

- Se non rientriamo nel nucleare saremo tagliati fuori dallo sviluppo tecnologico

Come sottolineato da Giuseppe Zampini, AD di Ansaldo Energia, l'utilizzo di tecnologia EPR francese per la realizzazione di centrali nucleari in Italia non comporterà molta ricaduta occupazionale in Italia, in quanto sarà necessario importare tecnici dalla Francia.
Inoltre, il costo per kWh dei nuovi impianti sarà in tempi molto rapidi superiore a quello ottenuto per mezzo di combustibili fossili.
L'ipotetica "avventura" nucleare italiana darà lavoro a poche grandi imprese; si tratta di un affare per giganti.
Dopo fusioni e riorganizzazioni, a livello mondiale sono rimasti pochi grandi gruppi che gestiscono la costruzione di impianti: Areva-Mitsubishi, Westinghouse-Toshiba, GE-Hitachi Nuclear Energy. (Le fusioni tra giganti sono ormai all'ordine del giorno: lo stesso succede, ad esempio, i costruttori automobilistici e aeronautici. Si tratta di un sintomo macroeconomico molto chiaro!)

- Siamo circondati da centrali in Francia e in Svizzera: se succede un incidente a loro, saremo coinvolti anche noi

E'vero; tuttavia, quale perversione masochista ci induce questo comportamento imitativo, visti gli svantaggi, evidenti o occultati, della tecnologia nucleare? Il parco centrali francese è piuttosto vecchiotto, e gli incidenti minori con fuoriuscite di materiale radioattivo stanno diventando sempre più frequenti (ad es., l'impianto di Tricastin). C'è poi stato il recente scandalo, denunciato da France-3, dei 300 milioni di tonnellate rifiuti radioattivi sparsi discretamente per le campagne, e impiegati come materiale strutturale.


Considerazioni conclusive


Il pacchetto 20-20-20, che prevede un aumento dell'efficienza energetica del 20% (con conseguenti aumento della quota di rinnovabli, e taglio di emissioni di CO2) entro il 2020, in realtà è in competizione diretta con l'utilizzo di energia nucleare: le due cose non sono compatibili, sia a livello di finanziamenti, che di reale bisogno di surplus energetico, nel caso in cui si migliorasse l'efficienza (soprattutto delle abitazioni).

Le tecnologie "distribuite" (tipicamente, gli impianti rinnovabili a potenza medio-bassa) sono destinate a diventare sempre più convenienti a causa di un mix di effetti: miglioramento continuo dell'efficienza e inesorabile aumento del prezzo delle materie prime fossili (peak oil). Inoltre, queste nuove tecnologie energetiche sarebbero molto più compatibili con il tessuto industriale italiano, dominato dalle piccole-medie imprese più che da grandi multinazionali.

Diceva Gandhi: "La terra produce abbastanza da soddisfare i bisogni di ognuno, ma non per soddisfare l'avidità di tutti".

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Alcuni post di Aspo-Italia sull'energia nucleare (quelli meno recenti sono comunque ritrovabili sul blog) :

- Italia, Francia e il nucleare

- Democrazia, informazione e nucleare

- Che succede al nucleare?

- ASPO-Italia sul nucleare

- Nucleare: mito e realtà

- Il Bidone Nucleare

- Dietrologia nucleare anni '80

giovedì, luglio 16, 2009

Crollo dei consumi elettrici e felicità

Nell’articolo “Non tutte le crisi vengono per nuocere” ho analizzato i dati provvisori prodotti da Terna relativi ai consumi di energia elettrica in Italia nel 2008, rilevando un evento storico mai verificatosi dal dopoguerra ad oggi, cioè una riduzione sensibile sia del Consumo Interno Lordo, sia della richiesta in rete, rispetto all’anno precedente. L’evento assume maggiore rilevanza se esaminiamo i dati disponibili sempre sul sito di Terna relativi al primo semestre del 2009 e visibili nella tabella allegata, in quanto la tendenza alla diminuzione dei consumi si accentua ancora di più anche nell’anno in corso, prefigurando uno scenario di decrescita pluriennale verificatosi solo durante le guerre mondiali, a dimostrazione della forza distruttrice della domanda da parte della recessione economica in corso.
I dati più significativi del primo semestre 2009 sono, una riduzione della richiesta di energia elettrica di ben 8,2% rispetto allo stesso semestre del 2008 che, a parità di giorni lavorativi, corrisponde a un calo del 7,6%, un crollo della produzione termoelettrica del 20% in parte compensato dalla crescita della produzione idroelettrica di quasi il 35%, dell’eolico (+6%) e del saldo con l’estero (+16,7%).
Se il trend, come appare, si stabilizzerà intorno all’8%, a fine anno avremo una richiesta di circa 310 TWh rispetto ai circa 337 TWh dell’anno precedente. Una cosa veramente impressionante. Se a questo si associa il calo in corso dal 2006 dei consumi energetici complessivi (analizzato in dettaglio nei miei precedenti articoli 1 e 2), stiamo assistendo “in corpore vili” alle conseguenze energetiche, ambientali e sociali della tanto teorizzata decrescita. Confesso che a un peakoiler convinto come me sembrano meno stravolgenti di quanto qualche fanatico della crescita illimitata vorrebbe far pensare. Certo, il calo dei consumi elettrici deriva prevalentemente dalla riduzione delle attività industriali (che in Italia coprono il 50% dei consumi elettrici totali) e l’aumento della disoccupazione non fa piacere a nessuno. Sarebbero necessarie diverse politiche industriali e profonde politiche di redistribuzione dei redditi, ma non c’è niente da fare, dovremo prima o poi abituarci a una società che agli sprechi consumistici sostituisca stili di vita più sobri e frugali. Convincendoci che non è affatto vero che a maggiore benessere materiale corrisponda automaticamente maggiore felicità. Non sarà un caso che il recente rapporto sull’HPI (Happy Planet Index) ha calcolato che l’indice di felicità di alcuni paesi del Centro America è nettamente superiore a quello di paesi come l’Italia, molto più ricchi e opulenti.

mercoledì, luglio 15, 2009

Home: il film



Si sta diffondendo anche il Italia il film di Yann Arthus Bertrand "Home". Da quello che ho capito, non esiste una versione in Italiano; ma poco importa: sono le immagini che contano.

Home è un film di immagini bellissime che si susseguono. segue da vicino la linea di pensiero di ASPO e di The Oil Drum, TOD. Anzi, mi ha dato più di una volta da pensare che sia stato ispirato da alcuni dei post che ho pubblicato su TOD. Per esempio, quando fanno vedere le coltivazioni in Arabia Saudita e dicono che l'acqua fossile saudita è ormai esaurita, questo potrebbe venire benissimo dal mio post in proposito su TOD, dato che è stato il primo sull'argomento e che non mi sembra sia stato ripreso in altri post in Inglese. Non ci sarebbe niente di strano; TOD è un sito che viene letto da molti dei migliori cervelli di questo pianeta.

Come dicevo, è un sito di immagini bellissime, ma non solo di immagini. L'autore ha perfettamente chiaro come funziona la macchina planetaria che chiamiamo Gaia"e il fatto che tutto quello che vediamo dell' "ecosfera" è interconnesso. Nulla può esistere in isolamento, tantomeno gli esseri umani. E' una visione estremamente evoluta e in accordo con gli studi di ecologia planetaria più recenti.

Sono anche immagini angoscianti. L'impressione che se ne ha è della distruzione totale del pianeta: spogliato, bucherellato, eroso, deforestato, surriscaldato, "sviluppato" secondo il concetto umano di "sviluppo". Quando vedete come hanno ridotto le foreste del Madagascar, vi viene voglia di scappar via urlando.

Stona, da ultimno, la nota di ottimismo forzato che forma gli ultimi 10 minuti del film, basato sullo slogan "E' troppo tardi per essere pessimisti". Per ovvi motivi, ci doveva essere, per salvare il film dalla facile accusa di catastrofismo. Però, l'impressione è che sia semplicemente troppo tardi. Punto e basta.

Rimane da domandarsi a cosa servono questi film - faranno cambiare idea a qualche sostenitore dello sviluppo a tutti i costi? Probabilmente no, ma è comunque un bel film. Guardatelo.

lunedì, luglio 13, 2009

E' nato prima l'uovo o la gallina?

Di recente c’è stata una discussione in Aspoitalia riguardo l’origine dell’attuale crisi economica. Secondo alcuni il sistema economico non ha retto alla crescita tumultuosa dei prezzi petroliferi fino al settembre del 2008 e solo il conseguente calo vertiginoso della domanda mondiale ha riportato i prezzi a valori più bassi.

Secondo altri, tra cui il sottoscritto, la dinamica dei prezzi petroliferi ha avuto certamente un ruolo nel provocare la recessione che stiamo vivendo, ma la causa scatenante è stata la crisi finanziaria collegata allo scoppio della bolla immobiliare americana basata sul credito irresponsabilmente concesso dalle banche a cittadini potenzialmente insolventi.


Domenica scorsa, sulle pagine del Sole 24 Ore, un articolo di Riccardo Sorrentino aggiunge alcune frecce all’arco della prima tesi. Sorrentino cita a tale scopo, un’analisi di James D. Hamilton della California University: “Hamilton è stato il primo a stabilire un legame statistico, empirico, tra tutte le recessioni negli Usa e un precedente boom dei prezzi del petrolio. L’ultima crisi non poteva lasciarlo indifferente e, sia pur limitando il discorso ai soli Stati Uniti, ha tentato di dimostrare che l’attuale recessione non fa eccezione alla “sua” regola. Lo shock petrolifero ha innanzitutto ridotto gli acquisti di veicoli: il Pil USA tra ottobre 2007 e settembre 2008 è così aumentato dello 0,75%, ma sarebbe salito dell’1,25% - una crescita lenta, non una recessione – senza la crisi del settore auto, che ha perso 125 mila lavoratori. Poi sono crollate la fiducia dei consumatori e le loro spese. Come è sempre avvenuto. E il settore immobiliare, le sue difficoltà? Hamilton è scettico: “Gli investimenti residenziali hanno sottratto 0,94 punti dalla crescita annua del Pil reale tra ottobre 2006 e settembre 2007, quando l’economia non era ancora in recessione, e soli 0,89 punti nei dodici mesi successivi, quando la recessione ha avuto inizio. E’ chiaro che qualcosa ha trasformato la lenta crescita in recessione.” Senza contare che c’è sempre un’interazione tra lo shock petrolifero e il prezzo delle case.

Il discorso di Hamilton non si ferma qui. Ha conseguenze politiche importanti. A suo giudizio i rialzi del 2007-2008 sono stati causati da un aumento della domanda e una stabilità dell’offerta. Ha anche una spiegazione fuori dal coro per il rapido crollo del greggio da 145 a 40 dollari. Consumatori e aziende avrebbero cambiato abitudini e diminuito in modo più incisivo l’uso di energia in risposta ai rialzi, mentre gli investitori si aspettavano la consueta, lenta riduzione, e hanno spinto i prezzi troppo in alto. Il ruolo del diluvio di liquidità non viene negato, ma diventa un’ipotesi superflua.”


Niente da eccepire con quest’ultima parte dell’analisi, ma mi permetto di confutare la sua teoria panpetrolifera della crisi. Hamilton forse dimentica che, mentre il Pil cresceva lentamente negli Usa, continuava a salire vigorosamente a livello globale trainato dalle economie emergenti di Cina e India. In un certo senso, la crescita lenta delle economie occidentali degli ultimi anni è da attribuirsi proprio alla spietata competizione internazionale di tali economie e forse la spregiudicata finanziarizzazione dell’economia è stato proprio il modo del capitalismo occidentale per tentare di reagire a tale competizione rilanciando surrettiziamente i consumi interni. Inoltre, forse Hamilton sottovaluta anche il ruolo che ha avuto il crollo delle banche sotto il diluvio dei titoli tossici, nella riduzione degli investimenti industriali e la crisi di molti consumatori che, per lo stesso motivo, hanno visto sparire o ridursi in poco tempo il valore dei propri investimenti. Ma, comunque, riconosco che i fattori in gioco si influenzino tra di loro in maniera complessa e che si debbano evitare interpretazioni riduzioniste della realtà.
Su una cosa però non si può che concordare con Hamilton: “se però la crisi è nata da una domanda di petrolio in esplosione e una produzione stagnante, la recessione è allora una cura di breve periodo a un problema che è invece di lungo periodo e che non potrà che ripresentarsi. I policy-makers dovrebbero affrontare queste sfide e non dare tutta la colpa di quanto avvenuto a un’aberrazione del mercato.”

venerdì, luglio 10, 2009

Come cresce il fotovoltaico

Sul sito del GSE è apparsa la notizia che gli impianti fotovoltaici in Italia a seguito del Conto energia (vecchia più nuova versione) hanno superato i 500 MW di potenza installata. Ad un anno dalla mia prima analisi del Conto Energia la situazione è nettamente migliorata con un ritmo di crescita delle installazioni molto promettente. Cerchiamo ora di valutare questi risultati partendo dai dati disponibili, nella prima pagina dello stesso sito, sul contatore aggiornato in tempo reale, delle installazioni di impianti fotovoltaici, suddivise tra quelle realizzate con il nuovo e il vecchio Conto Energia. Il vecchio Conto Energia fu approvato con il decreto del 28 luglio 2005 e ha trovato applicazione in tre trimestri, i due finali del 2005 e il primo del 2006, per un periodo complessivo di vigenza di circa 9 mesi. Il nuovo Conto Energia è stato approvato con il decreto del 19 febbraio 2007 e quindi ha un periodo di vigenza di circa 28 mesi.
Vediamo i risultati. Con il vecchio Conto Energia sono, fino all’ 8 Luglio, entrati in esercizio 5.667 impianti fotovoltaici per una potenza complessiva di 159,379 MW (a fronte di 387 MW ammessi all’incentivazione), con il nuovo Conto Energia sono entrati in esercizio 36.255 impianti fotovoltaici per una potenza complessiva di 373,797 MW. Il vecchio regime ha ottenuto quindi, una potenza media di 28,12 kW contro i 10,31 kW del nuovo regime. L’obiettivo indicato dal nuovo Conto Energia di 3000 MW di potenza installata al 2016 appare difficilmente raggiungibile, in quanto occorrerebbero circa 20 anni al ritmo attuale di installazione. Anche se considerassimo la tendenza in corso a una maggiore velocità di crescita delle installazioni, che però negli ultimi mesi si è attenuata, probabilmente a causa del crollo delle quotazioni petrolifere e della crisi economica in corso (vedi il grafico dell’IEA sul crollo degli investimenti globali), il raggiungimento dell’obiettivo rimane comunque problematico, anche perché, come risulta dal comunicato del GSE, gli impianti di piccola taglia, inferiori ai 20 kW, sono la gran maggioranza (circa 37.000) mentre al momento sono entrate in esercizio solo 8 centrali fotovoltaiche di potenza superiore ad 1 MW.
Sembrerebbero quindi confermate le conclusioni del mio articolo “Confronto tra vecchio e nuovo decreto di incentivazione del fotovoltaico” che individuava nella scarsa incentivazione degli impianti di potenza più elevata uno dei limiti del nuovo Conto Energia.
Ma quanta energia producono i circa 530 MW totali installati fino ad oggi? Ipotizzando un tempo equivalente di funzionamento medio in Italia di 1300 ore, otteniamo circa 0,69 TWh all’anno cioè lo 0,19% dell’intero Consumo Interno Lordo italiano (357 TWh nel 2008). Una quantità per ora irrisoria.
In prospettiva, per arrivare a produrre ad esempio il 10% del Consumo Interno Lordo italiano con il fotovoltaico occorrerebbero circa 180 anni al ritmo annuale di installazioni del nuovo Conto Energia e comunque tempi superiori al secolo anche considerando una crescita più sostenuta delle installazioni. Concludendo, nessuno dei due sistemi di incentivazione in conto energia (l’attuale meno del primo) è stato in grado di far crescere in maniera significativa la potenza fotovoltaica installata e, soprattutto, di abbattere i costi, uno dei principali ostacoli alla diffusione di questa tecnologia. Sarebbe a mio parere necessario, a tal fine, stabilire un nuovo regime incentivante che favorisca l’installazione di grandi impianti dell’ordine di decine di MW, gli unici in grado di accrescere rapidamente la potenza installata. E, soprattutto, promuovere anche con forti incentivi economici la sperimentazione di grandi impianti fotovoltaici collegati a sistemi di accumulo dell’energia elettrica prodotta (idrogeno, aria compressa, accumulo elettrochimico ecc.) per ovviare al principale fattore limitante di fonti rinnovabili come il sole e il vento, descritto molto bene in questo articolo di Domenico Coiante, cioè la compatibilità di una produzione energetica intermittente con la rete di trasmissione dell’energia elettrica.

giovedì, luglio 09, 2009

Il lavoro nobilita?


Che il lavoro nobiliti, ce lo insegnavano già i nostri nonni a inizio novecento. Ed è così, in linea di principio; tuttavia, viste le evoluzioni che ci sono state nel nostro secolo, qualche domandina di puntualizzazione sorge spontanea.
L'aumento della produzione industriale (a sua volta indotto dall'aumentata disponibilità energetica fossile) ha creato uno spontanea migrazione di forza lavorativa dalla campagna alla città, e la conseguente urbanizzazione. Le condizioni di lavoro del contadino apparivano più dure di quelle dell'operaio della fabbrica, anche se nella realtà dei fatti non era detto che fosse così; tuttavia, l'industria trasmetteva un "senso di sicurezza economica" maggiore.

Tra le domande che ci possiamo porre troviamo ad esempio:

- è così nobile svolgere lavori ripetitivi e magari nocivi, per garantirsi uno stipendio che sta raggiungendo un asintoto e difficilmente reggerà le ondate inflattive (legate al peak oil&gas) ?
- quanto è nobile stare fuori casa per lavoro 10-12 ore al giorno, trascurando la famiglia e le relazioni?
- conosco persone che sul lavoro si trasformano; padri di famiglia che per il loro ristretto interesse, anche minimo, sono pronti a scavalcare e denigrare il prossimo. E' nobile, questo?
- che senso ha volersi ostinare a produrre sempre di più, quando il sistema linfatico dell'attività industriale, che è la disponibilità energetica e mineraria, sta mostrando difficoltà sempre più evidenti?
- è così gratificante (per chi fa questo tipo di lavoro) passare ore a compilare moduli, farne n copie e generare n plichi da archiviare in n posti diversi, che saranno ignorati da chi verrà dopo?


A una più profonda analisi, il lavoro nobile è quello che più si avvicina alla rinnovabiltà, al riuso delle risorse. Quindi, possiamo pensare a imprese agricole a bassa meccanizzazione e basso uso di chemicals, oppure a medie industrie di riciclaggio materiali per il manifatturiero o di produzione di generatori di energia rinnovabile, magari autoalimentate con fotovoltaico, eolico o minidro.

Tutto il resto, la grande industria per capirci, sta vivendo la fase discendente dell'impero Romano. Le gerarchie sovrapopolate da individui a basso EROEI sono un sottoprodotto del surplus energetico, e declineranno allo stesso modo in cui hanno prolificato (anche se quelli che resteranno saranno ossi duri ...) .

PS1 In questo contesto, le idee di aumentare l'orario lavorativo a 65 ore/settimana e di innalzare progressivamente (fino a quando?) l'età pensionabile sono chiarissimi indicatori dello sbando cui ci sta portando lo stallo energetico

PS2 Ovviamente nei dubbi sull'utilità di certe mansioni includo anche me stesso :-)

lunedì, luglio 06, 2009

Siamo tutti minatori


You load sixteen tons, and what do you get?
Another day older and deeper in debt.
Saint Peter, don't you call me, 'cause I can't go;
I owe my soul to the company store...

Carichi sedici tonnellate, e cosa ottieni?

Sei più vecchio di un altro giorno, e più in debito di prima
San Pietro, non chiamarmi, perché non posso andare
La mia anima, la devo al negozio della compagnia.

Merle Travis, 1946 (1956 version di Ernie Ford)


La canzone di Merle Travis descrive la storia del minatore che con il suo salario non riesce a far pari con quello che deve spendere al negozio di proprietà della compagnia che lo paga.

In questo post vorrei esaminare una questione: non siamo per caso tutti nella stessa situazione del minatore della canzone? Ovvero, il mercato del petrolio nel mondo non potrebbe giocare il ruolo del "company store", dove ci fanno pagare un prezzo tale che finiamo per esserne indebitati e diventare schiavi?

La questione ha a che fare col concetto di monopolio, ovvero quando il mercato di un certo bene è in mano a un solo produttore. Questa è una cosa che si studia in economia dove si conclude che un mercato basato sul monopolio è "imperfetto" in confronto con quello libero (che invece è perfetto, o dovrebbe esserlo). Questo perché la produzione in regime di monopolio si stabilizza su valori più bassi, e i prezzi su valori più alti, di quelli che ci sarebbero in un libero mercato. Così, il produttore stesso perde un mercato potenziale: quello dei consumatori che non si possono permettere il bene a quei prezzi.

Secondo la teoria economica, i monopoli non dovrebbero esistere, però, ovviamente, esistono, eccome! Fra i tanti esempi, mi viene in mente quello delle macchinette distributrici agli aeroporti. Se volete una bottiglietta d'acqua da 250 cc da una di queste macchinette, la dovete pagare uno sproposito (l'ultima volta, l'ho vista a 1 euro e mezzo). Questo è l'effetto del monopolio che qui gioca sul concetto di "captive market", ovvero mercato prigioniero. Per la verità, quando sei in un aeroporto, non è il mercato a essere prigioniero: sei tu il prigionero. Siccome non puoi uscire, se hai sete ti tocca pagare. Notate che se non sei proprio assetato come se ti fossi fatto il deserto del Kalahari a piedi, probabilmente rinunci a bere: è questa l'inefficienza che viene fuori dai modelli economici. Il gestore delle macchinette perde una certa frazione di mercato: quelli che non sono tanto assetati da ridursi a pagare quel prezzo esoso.

La situazione si ripresenta in luoghi turistici, dove il povero turista si trova a dover pagare la bottiglia d'acqua a prezzi esosi, anche se inferiori a quelli delle macchinette dell'aeroporto. Qui, non è che il turista non possa scappare, ma comunque è costretto dalla mancanza di tempo a gravitare in aree limitate, dove viene efficacemente spennato. Da notare che i negozianti delle aree turistiche sono indipendenti l'uno dall'altro ma in qualche modo si trovano d'accordo a non far partire il meccanismo della concorrenza che abbasserebbe i prezzi della merce. Gli oligopoli sono molto comuni e funzionano anche senza bisogno di strutture formali di gestione.

Ora, dal punto di vista dei modelli economici, tutto il problema del monopolio o oligopolio si risolve nel fatto che il mercato non è ottimizzato. Ma l'analisi economica non ci dice niente di cosa succede quando il monopolista ha in mano un bene vitale, dal quale dipende la sopravvivenza del consumatore. In questo caso si instaura il meccanismo micidiale del "company store" che ti rende schiavo (*).

E' il caso dell'acqua. Ovviamente, non risulta che in un aeroporto nessuno sia mai morto di sete per non potersi permettere la bottiglia delle macchinette. Ma chi controlla l'acqua in un paese arido ha un potere immenso. Non per nulla, il sacro Corano ordina esplicitamente ai proprietari dei pozzi di dare accesso all'acqua a tutti dopo che hanno soddisfatto le loro necessità. Non ci vuole niente di meno di un comandamento divino per impedire a chi possiede l'acqua di tiranneggiare a piacimento chi non la possiede.

La domanda è se chi possiede il petrolio (che non è menzionato nel Corano) può utilizzare lo stesso meccanismo. Ovvero, fartelo pagare talmente caro che alla fine ti trovi in una spirale di debito tale che non ne esci più fuori e diventi suo schiavo.

Sembrerebbe di si. Per noi il petrolio è altrettanto vitale dell'acqua e esiste addirittura una struttura formale (un "cartello") destinata a controllare il mercato (l'OPEC). Per la verità, l'OPEC non è stata molto efficace fino ad oggi: finchè la risorsa petrolio è stata abbondante, il meccanismo dell'oligopolio non è mai veramente scattato. Ma, non appena la produzione mondiale ha dato segni di scarsità abbiamo visto i prezzi impennarsi e iniziare un periodo di arricchimento dei produttori e impoverimento dei consumatori. Negli anni '70, in una situazione molto simile, si accusavano gli arabi di avere i WC d'oro nei loro gabinetti. Era una leggenda, ma rendeva bene l'idea il potere dell'oligopolio petrolifero sui chi il petrolio non lo aveva.

Nell'ultima crisi, il prezzo del petrolio è salito finché il mondo industriale è riuscito a permettersi di pagare. (immaginiamo un turista assetato che non ha altra scelta che comprare l'acqua - a qualsiasi prezzo - dal baracchino di fronte al museo). Raggiunto il punto limite, l'economia è crollata (il turista ha finito le monetine ed è svenuto per la sete). Adesso, i prezzi petroliferi si sono abbassati (il gestore del baracchino non vuole che il turista muoia e gli butta un po' d'acqua in faccia). Ma non vi aspettate che qualcuno ci faccia dei regali. Il petrolio tenderà sempre a costare il massimo che possiamo permetterci di pagare.

Questo ci renderà schiavi dei produttori? Tendenzialmente si. E non serve mettersi a urlare, "invadiamoli per prenderci il petrolio", come andava di moda solo qualche anno fa. In effetti, un buon numero di allocchi aveva creduto davvero che invadere l'Iraq servisse ad abbassare il prezzo del petrolio. E' successo esattamente il contrario. Era ovvio e bastava ricordarsi la legge fondamentale dell'economia che dice "nessuno ti regala niente" (in Inglese, "there is no such thing as a free lunch").

Chiunque controlli una risorsa vitale che esiste in quantità limitate è sempre tentato di usarla per aumentare il suo potere. Questo vale per l'acqua, il petrolio, l'uranio e tante altre cose. La tendenza durerà finché non ci decideremo a passare a sorgenti di energia rinnovabile. Il monopolio del sole, per fortuna, non ce l'ha nessuno.


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(*) nota. Rimane da domandarsi come mai , se il libero mercato è la condizione migliore, i monopoli e gli oligopoli si instaurano così facilmente e così di frequente. La ragione sta nel fatto che i mercati non sono mai ottimizzati per il bene di tutti; ovvero non c'è la famosa mano invisibile di cui parlava Adam Smith. Sono piuttosto soggetti al meccanismo detto "del bandito" secondo Mancur Olson.

Questa idea è basata sulla teoria dei giochi piuttosto che sulle astratte regole dei modelli economici. Nella teoria dei giochi, ogni giocatore cerca di ottimizzare le sue scelte per il proprio profitto. Non è affatto detto che questo porti ad ottimizzare il gioco per il bene di tutti (appunto, non c'è la mano invisibile). In effetti, secondo Olson, il mondo reale tende a generare banditi che sfruttano i mercati per il loro profitto. Forse non ci voleva uno scienziato per dirci una cosa del genere, dato che la vediamo tutti i giorni. Ma comunque va il merito a Olson di averla formalizzata.

Fra le altre cose, Olson distingue fra "il bandito scorrazzante" (roving bandit) e il "bandito stazionario" (stationary bandit). Il primo, il bandito scorrazzante, è un predatore che ha interesse a depredare le sue vittime senza curarsi della loro sopravvivenza. Il secondo ha interesse a depredarle soltanto quel tanto che basta perché sopravvivano e possano essere depredate di nuovo. Il bandito stazionario può essere anche definito come un "bandito perfetto" con un termine usato per la prima volta da Carlo Maria Cipolla nel suo "Le leggi fondamentali della stupidità umana"

Il bandito perfetto, secondo Cipolla è uno il cui guadagno risultante dal furto è pari alla perdita del derubato. Nel senso di Olson, il bandito perfetto è quello che ti ruba esattamente tutto quello che hai di superfluo, senza farti ulteriori danni. In altre parole, il bandito perfetto ti costringe alla sobrietà perfetta. Come è ovvio, i banditi reali, stazionari o scorrazzanti, sono spesso tutt'altro che perfetti. L'imperfezione può consistere nel lasciarti qualcosa in più oppure, più comunemente, nel toglierti anche cose essenziali. In più, il bandito imperfetto ti può torturare, dar fuoco alla tua casa, violentare la moglie, e tutte le altre cosette che sono tradizionali in queste situazioni.

In sostanza, il monopolio è uno stato naturale delle cose in economia, mentre il "libero mercato" è una bella cosa verso cui tendere, ma che è molto difficile da raggiungere e mantenere. Ne conseguono un certo numero di cose molto spiacevoli, tipo la storia del minatore della canzone. Ma è cosa molto generale che il monopolio di certe cose, per esempio delle armi, porta alla schiavitù di chi viene monopolizzato.

Per esempio, nella storia umana, i contadini sono sempre stati rapinati di tutto dai loro signori, monopolisti della forza militare. Erano banditi non sempre perfetti, ma avevano interesse a lasciare ai contadini soltanto il minimo necessario per la loro sopravvivenza, tutto il resto se lo incameravano senza complimenti. Vi ricordate, forse, del film "I sette samurai" di Akira Kurosawa. Si raccontava di come i contadini di un villaggio avessero ingaggiato dei samurai (più esattamente "ronin", guerrieri senza padrone) per difenderli da un gruppo di banditi che li stavano depredando. Nel film, I ronin difendono il villaggio, ma che differenza c'è fra loro e i banditi? Alla fine dei conti, la condizione tipica della maggior parte della storia dell'umanità è stata definita come "peasants ruled by brigands" (contadini dominati da briganti). Tutto quello che è, deve avere una ragione di essere.

venerdì, luglio 03, 2009

Da Lagash a Istanbul: la lunga guerra dell'acqua


La Stele degli avvoltoi (conservata al museo del Louvre a Parigi): rappresenta, con bassorilievi e scrittura cuneiforme, la vittoria del re Eannatum di Lagash sulla città di Umma



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Premessa
Qualche anno fa decisi di studiare di nuovo la storia antica. Per la verità si trattava di studiarla per la prima volta perché non si può certo considerare “studio” quello fatto alle medie, sia per le superate metodologie applicate sia perché non si possedevano molte conoscenze sulla storia antica (mi pare tra l’altro che si iniziasse dagli “Egizi” e che non venisse trattata per niente la civiltà sumera). Il motivo di questa scelta fu che trovavo difficoltà a comprendere certe cose e che, pensavo, avrei superato queste difficoltà se avessi studiato quel periodo (il settimo-sesto-quinto millennio B.P. [Before Present]) in cui ipotizzavo si fossero create (in risposta a nuovi problemi come, per esempio, l’incremento demografico) tutte quelle strutture, tutti quei valori che sono il corpo e il sangue dell’attuale civiltà.

L’importanza dell’acqua
Il miglioramento delle condizioni di vita che è avvenuto nel mondo sviluppato da circa un secolo e mezzo a questa parte è dovuto a tanti fattori. La maggiore disponibilità di cibo e le disponibilità di cure mediche (in specie le vaccinazioni) hanno avuto la loro importanza. Ma è stata la maggiore disponibilità di acqua a rendere possibile migliori condizioni igieniche oltre che a rendere possibile una maggiore produzione agricola e zootecnica. L’anno scorso ho fatto una ricerca sul modo in cui al mio Paese di nascita si cercava di risolvere il problema dell’approvvigionamento dell’acqua prima che arrivasse l’acquedotto. Ho così appreso come il problema dell’acqua fosse centrale nella vita delle famiglie. Nel periodo a cui si riferisce questa ricerca (dall’unità di Italia fino alla metà del secolo scorso) la scarsità di acqua aveva un’incidenza notevole sull’igiene e sulla salute delle persone; specialmente durante l’estate la mortalità infantile per enterite raggiungeva cifre spaventose. Ma a mietere vittime, soprattutto sulla gente più povera, erano anche il tifo, la malaria, la polmonite, il vaiolo, la difterite, la poliomielite e altre malattie ancora.

Secondo molti studiosi il problema dell’approvvigionamento dell’acqua sarà uno dei problemi più importanti dell’umanità nel prossimo futuro, insieme alla riduzione della disponibilità dei combustibili fossili e al rischio del venire meno di molti equilibri ambientali. Il petrolio viene anche chiamato 'oro nero', e l’acqua viene anche chiamata 'oro blu'. L’approvvigionamento dell’acqua inoltre è strettamente dipendente dalla disponibilità di combustibili fossili e dalle condizioni ambientali-climatiche. Per rendere disponibile l’acqua è necessario che piova e nevichi ma poi è necessario captarla, trasportarla e distribuirla; ciò richiede la costruzione di dighe, acquedotti, serbatoi, impianti di sollevamento idrico e altre strutture ancora: ciò significa infine enorme consumo di energia.

Probabilmente le guerre future avverranno per il petrolio, il gas e altre risorse minerarie, ma, data l’indispensabilità dell’acqua per la vita umana, si pensa che soprattutto l’accesso all’acqua sarà un forte motivo dei futuri conflitti.
Di sicuro l’accesso all’acqua fu il motivo più importante di quelle che potrebbero essere considerate le prime guerre in senso moderno, cioè quelle che riguardarono le città-stato della civiltà sumera nella bassa Mesopotamia circa 4.500 anni fa.

Nel terzo millennio a.C.
Per centinaia di migliaia di anni, durante il paleolitico, i gruppi umani, della consistenza di una trentina di individui fra uomini, donne e bambini, non avevano il problema del territorio. Conducevano una vita nomade, con gli uomini dediti alla caccia e le donne alla raccolta. Gli spazi erano vasti e caso mai un gruppo si fosse imbattuto in un altro si sarebbe fatto ricorso alla tecnica dell’ “evitamento reciproco”.
Nella prima metà del terzo millennio a.C. la pianura alluvionale della bassa Mesopotamia ospitava una popolazione di una consistenza enormemente superiore ai periodi precedenti. Gli abitanti, chiamati Sumeri, erano organizzati sul territorio in numerose città-Stato di grandezza quasi equivalente, come Uruk, Lagash, Umma, Ur, Kish e altre ancora. Il territorio delle singole città aveva approssimativamente un'estensione di una trentina di Km di diametro, erano distanti alcune decine di km l’una dall’altra e la popolazione di ogni città-stato era di alcune decine di migliaia di abitanti, distribuiti in parte nella città e in parte nel territorio circostante.
Ciò che caratterizzava il territorio su cui insistevano le varie città-Stato era la rete dei canali. L’agricoltura nella bassa Mesopotamia era irrigua e si basava sulle colture orticole, i cereali (soprattutto grano e orzo), i legumi e la palma da dattero. Nelle intercapedini fra i vari territori irrigati veniva praticata la pastorizia. Il territorio irriguo era formato da tanti campi a forma rettangolare molto allungata con il lato corto che si affacciava sul canale.
Fu l’agricoltura irrigua che, accoppiata all’uso dell’aratro seminatore, rese possibile, nella coltivazione dei cereali, rendimenti con un rapporto anche di 25-30:1 fra prodotto e semente. Fu questa l’energia che rese possibile il forte incremento demografico e l’imponente urbanizzazione nella bassa Mesopotamia nel terzo millennio a.C.
La consistente presenza demografica fu sicuramente la base per le frizioni che ben presto si crearono fra le varie città-Stato. Ma la motivazione più immediata, molte volte, fu l’accesso all’acqua a fini irrigui con la creazione dei canali. La creazione di canali favoriva i territori a monte del corso del fiume e danneggiava quelli a valle.
Probabilmente fu un problema di costruzione di canali, di accesso all’acqua e di sistemazione organica di tutto il territorio della bassa Mesopotamia (il paese di Sumer) che, verso la metà del terzo millennio a.C., portò il re Eannatum di Lagash a fare guerra ad Umma e ad una coalizione di altre città-Stato della regione. Lagash uscì vittoriosa da questo scontro e rese Umma sua tributaria (nel senso che quest’ultima dovette pagare periodicamente dei tributi a favore della stessa Lagash) e sistemò in modo organico tutto il territorio della bassa Mesopotamia.
Lagash e Umma erano situate fra il Tigri e L’Eufrate nel loro basso corso. La distanza fra le due città era di qualche decina di Km. Il territorio di Umma, in relazione al corso dei due fiumi, era situato a monte rispetto a quello di Lagash, per cui è da presupporre che furono le iniziative di Umma di costruzione di nuovi canali a provocare la reazione di Lagash, che si vedeva appunto danneggiata dalla costruzione di quei canali. A quei tempi le dispute territoriali venivano ideologizzate come dispute tra divinità e nell’interpretazione della loro volontà da parte delle diverse città-stato. Ovviamente, a posteriori, la volontà vera delle divinità era quella del vincitore e quindi giustificava i suoi interessi territoriali. Bisogna anche dire che furono sperimentate delle tecniche laiche come, in questo caso, un precedente arbitrato del re Mesilim di Kish per dirimere le dispute territoriali fra le due città-stato in questione.
Eannatum, a ricordo della vittoria, fece erigere un monumento a cui è stato dato il nome di Stele degli avvoltoi (è conservata al museo del Louvre a Parigi). Le scene raffigurate nei bassorilievi esprimono momenti della guerra vittoriosa mentre nelle scritte cuneiformi (oltre a celebrare la vittoria di Eannatum, il “giusto”, il” potente”, il “saggio”) viene, tra l’altro, detto che (1):” Eannatum gettò la grande rete di battaglia di Enlil sull’uomo di Umma e su di essa lo fece giurare. L’uomo di Umma a Eannatum fece giuramento: ‘Per la vita di Enlil, signore del cielo e della terra! Io posso sfruttare il campo di Ningirsu come prestito. Io non…il canale di irrigazione! Mai io violerò il territorio di Nirgirsu. Io non cambierò il corso dei suoi fossati e canali di irrigazione. Io non sposterò la sua stele! Se mai io trasgredissi (questo giuramento) possa la grande rete di battaglia di Enlil, re del cielo e della terra, sulla quale io ho giurato, scendere su Umma’.”

Nel terzo millennio d.C.
Situazioni come quella descritta in riferimento alla bassa Mesopotamia sono diffusissime in tutto il mondo attuale perché circa 250 fiumi, che forniscono più della metà dell’acqua dolce mondiale, sono condivisi da due o più Paesi.
Il Medio Oriente si pone in questo inizio del terzo millennio d.C. come una delle aree più critiche per quanto riguarda il problema dell’approvvigionamento di acqua dolce. La “struttura” del problema è simile a quella vista a proposito di Lagash e Umma a metà del terzo millennio a.C.: il Paese a monte del corso di un fiume, con iniziative di sfruttamento dell’acqua, a fini irrigui e/o potabili e/o per produzione di energia elettrica, danneggia i Paesi a valle del corso del fiume, sottraendogli acqua.
Per esempio la Turchia ha sbarrato con dighe gli iniziali corsi del Tigri e dell’Eufrate e dei suoi affluenti per produrre energia elettrica e per usi irrigui: in questo modo però entra in contrasto con l’uso dell’acqua da parte dei Paesi a valle del corso dei due fiumi, cioè la Siria e l’ Iraq. In seguito a queste opere il livello dei due fiumi si è abbassato di alcuni metri. La Turchia inoltre sembra che abbia in progetto la costruzioni di ulteriori dighe e di ulteriore uso irriguo ed energetico delle acque degli stessi fiumi e di suoi affluenti. E’ da pensare che ciò acuirà i rapporti con i due Paesi sopra menzionati, oltre che con le popolazioni curde, che abitano nei territori sud-orientali della stessa Turchia (che sono i territori maggiormente interessati da quei progetti).
Per rimanere in Medio Oriente bisogna dire che le difficoltà di pacificazione e di convivenza fra Israele e il Popolo Palestinese hanno una motivazione consistente anche nell’approvvigionamento di acqua dolce. Una parte consistente degli approvvigionamenti idrici di Israele provengono dal Golan e dalla Cisgiordania, cioè da territori che erano fuori dai suoi confini prima della “guerra dei sei giorni” nel 1967.
Nel sub continente indiano l’India, con la costruzione di una imponente diga sul Gange nella seconda metà del secolo scorso, ha sottratto molta acqua al Bangladesh. La stessa India inoltre ha iniziato, negli anni novanta del secolo scorso, altre opere di sbarramento di alcuni fiumi che condivide con la stessa nazione confinante, e ciò porterà ad un ulteriore diminuzione di disponibilità di acqua per quest’ultimo Paese.
L’utilizzo delle acque del Nilo e la loro giusta ripartizione sono occasioni di tensione fra Egitto, Sudan ed Etiopia.
Situazioni simili sono diffusissime nell’Africa nera, nel sub continente indiano, nell’estremo Oriente, nel centro Asia e in altre aree ancora.

La “struttura” del problema, sebbene ancora più complessa di come è stata descritta, è in linea di massima identica a quella delineata a metà del terzo millennio a.C. nella bassa Mesopotamia.

Il 5° Forum mondiale sull’acqua di Istanbul: una nuova “struttura” del problema dell’acqua
Riguardo all’acqua però si sta intravedendo un nuovo problema che si va ad aggiungere al precedente. E’ un problema caratterizzato da una nuova “struttura”, che si articola però in due aspetti strettamente connessi: la sua privatizzazione al fine di profitto e la ripartizione del costo delle strutture idriche in base agli utilizzatori dell’acqua portata dalle predette strutture idriche.

A Istanbul, dal 16 al 22 marzo 2009, si è tenuto il 5° Forum Mondiale sull’Acqua dal titolo “Bridging Divides for Water” (Colmare il divario per l’acqua) . Questa manifestazione è stata organizzata dal World Water Council (Consiglio Mondiale dell’Acqua), un organismo privato che ha forti legami con alcuni Paesi ricchi, con la Banca Mondiale e con società legate allo sfruttamento dell’acqua a fini di profitto. Al Forum hanno partecipato oltre 25.000 persone, capi di Stato e delegati provenienti da più di 150 Paesi.
L’ONU, in contemporanea ai lavori del Forum, ha reso noto dati che dicono che nel mondo ci sono 1,1 miliardi di persone che non hanno accesso all’acqua potabile, che 2,5 miliardi di persone non dispongono di servizi igienici e che, ogni giorno, muoiono 3.900 bambini per malattie legate all’insalubrità dell’acqua.

Sempre ad Istanbul contemporaneamente si è tenuto il Forum Mondiale alternativo sull’acqua, espressione di vari movimenti e, in generale, della società civile. A questo Forum alternativo hanno partecipato però anche rappresentanti di diversi governi nonché alti esponenti dell’ONU, come Miguel D’Escoto, Presidente dell’Assemblea Generale, e Maude Barlow, Senior Advisor on Water Issues per la stessa ONU.
Le posizioni venute fuori da questi due forum possono riassumersi in poche parole: per il Forum “ufficiale” l’acqua è un bisogno mentre per il Forum “alternativo” è un diritto. La distinzione non è da poco perché se l’acqua venisse considerata un diritto, un “bene extra mercato”, significa che gli Stati dovranno fare di tutto affinché le popolazioni possano averne accesso. Nel caso invece l’acqua venisse considerata un bisogno, una merce, significa che ogni persona, privatamente e in base alla propria possibilità economica, dovrà provvedere al suo soddisfacimento. In questo secondo caso molte popolazioni sarebbero escluse dall’acqua, come è già successo in alcuni Paesi che hanno privatizzato questa vitale sostanza.

E’ indicativo quanto successo in Bolivia alla fine degli anni novanta del secolo scorso: nel 1998 la Banca Mondiale decise che avrebbe concesso la garanzia di un prestito di 25 mln di dollari a Cochabamba (una delle più grandi città della Bolivia) a patto che il governo boliviano avesse privatizzato il sistema idrico pubblico, addossando l’intero costo delle infrastrutture idriche sui consumatori, senza utilizzare nessuno dei prestiti della Banca Mondiale stessa per aiutare i più poveri nel sostenere il costo dell’acqua. Ciò significò per molta gente dover pagare l’acqua più del cibo e dedicare buona parte del proprio reddito per acquistare l’acqua. Si arrivò al punto che i contadini avrebbero dovuto pagare per l’acqua che attingevano dai pozzi (cosa che avevano da sempre fatto liberamente) e a pagare dei permessi per raccogliere l’acqua piovana. Ciò portò alla nascita di un imponente movimento di opposizione che portò in breve tempo il governo boliviano ad eliminare la legislazione con cui aveva privatizzato l’acqua.

Il Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua di Istanbul nella sua dichiarazione finale afferma, tra l’altro, che le politiche di privatizzazione dell’acqua attuate nel recente passato da alcuni governi sono stati un fallimento, chiede che il controllo sull’acqua sia pubblico e partecipativo, e che il prossimo Forum Mondiale sull’Acqua sia organizzato dall’assemblea generale dell’ONU e non dal World Water Council.


(1) per la comprensione del testo è necessario sapere che: Enlil è uno degli dei supremi di tutti i Sumeri, ha caratteri di dio creatore, è dio del destino, stabilisce le sorti del mondo e, nella sua volontà, le varie città-stato e i suoi regnanti cercano la legittimazione delle loro posizioni di potere, comunque acquisite; Ningirsu invece è una divinità di Lagash; i puntini a metà della citazione indicano la mancanza di uno o più segni, dovuta allo stato di conservazione del monumento.