giovedì, luglio 31, 2008

Impressioni dalla Russia

Il vostro corrispondente dalla Russia con i piedi a mollo nel fiume Oka, a circa 100 km a sud di Mosca. Dopo che questa foto è stata scattata, i miei amici russi il fiume me lo hanno fatto anche attraversare a nuoto, ma non ho fotografie per testimoniare l'eroica impresa

Queste sono alcune note sparse del viaggio che ho fatto in Russia a fine Luglio. Non pretendono essere niente più che delle impressioni. In effetti, quando uno si trova per poco tempo in un paese che conosce poco, è facile farsene un'idea totalmente sbagliata. Peraltro, in Russia ci sono stato oramai parecchie volte, per cui forse qualcosina di come funzionano le cose laggiù l'ho capita. Perciò, provo a passarvi alcune osservazioni. Quelli di voi che ne sanno più di me della Russia, potranno correggere o integrare.


  • Clima di Mosca. Arrivato a Mosca il 23 Luglio, ho trovato condizioni atmosferiche tropicali: caldo umido che sembrava di essere a Lagos o a Mombasa. Non mi ricordavo di aver mai trovato un caldo del genere a Mosca. Ovviamente, questa osservazione è del tutto irrilevante ai fini del dibattito sul cambiamento climatico. Altrettanto irrilevante di quelle che mi vengono fatte occasionalmente sulla base che questo Luglio in qualche zona dell'Italia è sembrato particolarmente fresco a qualcuno.

  • Imballaggi e rifiuti. Mosca è ormai totalmente occidentalizzata in termini di imballaggi: i supermercati hanno gli “shoppers” in plastica, tutto è cellofanizzato e superimpaccato. Esattamente come da noi, potete comprare al supermercato, per esempio, formaggini o fettine di carne incartate una per una con un probabile valore dell'imballo superiore a quello dell'imballato. 10-15 anni fa, le cose erano completamente diverse. Gli imballaggi in plastica erano praticamente inesistenti e potevate comprare una scatola di cioccolatini che era di cartone con dentro i cioccolatini che sguazzavano liberi, avvolti soltanto (e non sempre) in un fogliettino di carta arrotolato a mano alle estremità. Questa esplosione degli imballaggi ha portato evidenti problemi con la normale rifiuteria sparsa che potete trovare altrettanto bene in Italia. Non so esattamente come sia gestito lo smaltimento dei rifiuti a Mosca. Presumo che ci sia posto in abbondanza per delle discariche; ma girellando per Mosca ho anche notato almeno un inceneritore tranquillamente piazzato nella periferia sud. Mi dicono che qualche anno fa, l'amministrazione di Mosca aveva cominciato la raccolta differenziata della plastica. Sembra che non abbia funzionato; nessuno differenziava e alla fine hanno smesso.

  • Ferrovie. Le ferrovie nei dintorni di Mosca sono un po' vecchiotte, ma i treni sono molto ben tenuti e confortevoli. Anni fa, la tappezzeria la rattoppavano a mano. Oggi, si sono potuti permettere di rifarla nuova– perlomeno sui treni dove sono andato. Mi dicono che c'è oggi un solo treno superveloce: quello che fa la tratta San Pietroburgo-Mosca in circa 5 ore. A parte quello, le ferrovie Russe non sembrano aver ancora imparato le migliori tecniche di gestione dalle nostre ferrovie; ovvero fare solo treni superveloci e poi chiudere le linee per i pendolari, possibilmente con la scusa che non ci sono abbastanza passeggeri. Non è detto che non ci arrivino anche i russi, piano piano. Per il momento, però, muoversi in treno a Mosca e dintorni è una cosa talmente pratica e efficiente che a nessuno sano di mente verrebbe in mente di andare in giro in macchina.

  • La fine del caviale. I supermercati e I centri commerciali di Mosca e dintorni sono strapieni di ogni sorta di alimentari; anche importati da tutto il mondo. E' una situazione ben diversa da come era anni fa, con la desolazione degli scaffali vuoti che faceva venir male al cuore. Una cosa che però oggi manca è il caviale nero; una volta comunissimo e poco costoso dentro caratteristiche scatole blu con sopra il disegno dello storione. Oggi, quelle scatole le ho viste soltanto al mercatino dell'antiquariato. Ho chiesto dove fosse finito il caviale nero, mi hanno detto che l'anno scorso si trovava ancora, ma a dei prezzi pazzeschi. Poco tempo fa, il governo ne ha proibito la vendita; secondo il mio interlocutore era perché il commercio del caviale era finito in mano a qualche mafia caucasica. Curiosa interpretazione di una cosa che invece si spiega benissimo con la distruzione sistematica dello storione del Caspio. Il caviale nero non si trova più semplicemente perché non ci sono quasi più storioni – sono esauriti come il petrolio di Baku. Ma tant'è, in Russia come da noi si preferiscono sempre le spiegazioni più complicate e strambe purchè si eviti la temutissima parola “esaurimento.”

  • Ricerca e università. La popolazione di ricercatori e universitari in Russia si è ridotta di circa un fattore 2 dal tempo dell'Unione Sovietica. Mi dicono che, al massimo storico, c'erano circa 200.000 ricercatori; oggi sono circa 100.000. Molti centri di ricerca sono completamente scomparsi. Io stesso ho visto un centro di ricerca che ospitava 2000 ricercatori (molti di alto livello internazionale) trasformato in un centro commerciale con tanti negozietti di abbigliamento o ristoranti che occupano quelli che una volta erano i laboratori. E' stata una distruzione creativa? Forse. L'idea del governo Russo era di eliminare i ricercatori di basso livello e di tenere solo quelli di alto livello. Ma, come è successo per quel centro di cui vi dicevo, la distruzione non è stata tanto creativa: hanno cacciato via tutti. Un mio collega particolarmente tosto ha comunque continuato a lavorare non lontano dal suo vecchio centro. Oggi lo deve fare in un laboratorietto affittato in un una specie di cantina in un edificio dove ha accanto una ditta che fabbrica nanetti di Walt Disney. Forse da questa cosa vi sarete fatti un'idea di quali siano i piani del governo italiano per quanto riguarda la ricerca e l'università. Io, a questo punto, l'ho capito benissimo. Qualcuno ha una cantina da affittare?

  • Palazzi e edilizia. Mosca è una città dove tutto è sempre su grande scala. Questo vale anche per gli appartamenti. Da noi, i palazzinari si limitano di solito a cubi di 5-6 piani, circa. A Mosca, immaginatevi le periferie ricoperte di edifici di 15-20 piani; larghi in proporzione, vere muraglie di appartamenti. Dal punto di vista energetico, questo tipo di architettura è certamente più efficiente delle sterminate distese di micro-villette che invece fanno il paesaggio degli Stati Uniti. Non perchè gli edifici siano particolarmente bene isolati; al contrario non mi è parso di vedere isolamenti termici particolari, a parte i doppi vetri che sono universali. Piuttosto, è perché il rapporto superficie/volume è più basso. Da quello che ho visto, il riscaldamento è fatto in grandi caldaie centralizzate, da cui il vapore viene portato agli edifici anche a distanze notevoli. Gli edifici non hanno impianti a gas, cosa che mi sembra saggia per ragioni di sicurezza. Anche i fornelli delle cucine, sono tutti a piastre elettriche. La prima ondata di cementificazione della periferia di Mosca era stata ai tempi dell'Unione Sovietica. Poi, con la crisi degli anni '90, si erano calmati. Ora, c'è pieno di gru dappertutto. Quando si tratta di cementificare, socialismo e capitalismo non sono gran che differenti.

  • Black out. Mi hanno raccontato che c'è stato un black-out per tutta Mosca nel Maggio del 2005. Le infrastrutture della città mi sono parse particolarmente vulnerabili a una cosa del genere: mi immagino gli ascensori fermi nei grandi palazzi, i treni della metropolitana anche quelli fermi. Anche il riscaldamento degli edifici si fermerebbe per via delle pompe che portano il vapore che sono sicuramente elettriche. Se una cosa del genere succede in pieno inverno; le conseguenze potrebbero essere bruttine dato che non c'è nessuna alternativa alle caldaie centralizzate per riscaldare gli appartamenti. Speriamo che non succeda.

  • Vita quotidiana. L'atmosfera di Mosca si è fatta nettamente più allegra e vivace di quanto non fosse anni fa. Non troverete mai i Russi indossare i bottoni con la faccina sorridente che usano tanto negli Stati Uniti. Ma, tuttavia, di questi tempi potrete vederli anche con un'espressione, diciamo, meno patibolare di quella che era comune una volta. Rimane l'impressione che i Russi non facciano altro che litigare fra loro; una cosa che avrete forse visto anche in una puntata dei “Simpsons”, quando Lisa si trova sperduta nel quartiere russo di Springfield. Ma una volta che ci avete fatto l'abitudine vedrete che i russi non sono meno cortesi e disponibili della gente da noi; solo un tantinello più bruschi al primo contatto.

  • Governo e burocrazia. La Russia ha ripreso certi controlli piuttosto capillari che erano tipici dell'Unione Sovietica, per esempio anche per comprare il biglietto del treno bisogna mostrare il passaporto. Con i miei colleghi russi, ci abbiamo ragionato sopra e siamo arrivati a una conclusione che credo abbia validità generale: ovunque nel mondo la grandissima maggioranza delle persone sono brave persone; ovunque nel mondo i governi sono composti delle persone peggiori. Per quale ragione accade che la brave persone siano sempre governate dalle peggiori, è uno dei misteri del nostro universo.

martedì, luglio 29, 2008

Attività estrattive

serbatoio di camionCon i prezzi del gasolio in crescita, si sta diffondendo un nuovo tipo di attività estrattiva. Nottetempo in diversi stati USA furgoni con una piccola cisterna al traino e un lungo trapano si fermano alle stazioni di servizio, improvvisano un piccolo pozzo petrolifero e vuotano la cisterna sotterranea del distributore.
Più in piccolo, in tutto il Portogallo individui con un piccone, un tubo, pompa a mano e taniche forano i serbatoi dei camion (500-1000 litri di gasolio, 700-1500 euro di bottino). Spesso, riempite le taniche, lasciano spandere a terra il resto. Il gasolio viene poi rivenduto ad un fiorente mercato nero, a prezzi attorno all'euro al litro.
Sono bersagliati in particolare i cantieri, dove i proprietari stanno cominciando ad assumere vigilantes, ma cominciano ad essere coinvolte anche le auto, in particolare i SUV (del resto è lì che il gasolio va a finire...).
Negli USA alcuni analisti stimano che i furti di gasolio dai camion, quest'anno, ammonteranno a circa l'8% del carburante utilizzato nel settore. Qui i ladri in genere forzano i tappi, e stanno diffondendosi appositi sifoni antifurto. Una ditta inglese reclamizza i suoi antifurto a infrarossi. Qualcuno propone di lasciare in giro esche riempite di dieselolio di frittura zuccherato (l'utilizzatore ci penserà due volte prima di comperare al mercato nero....).
Neppure i serbatoi di olii vegetali esausti dei ristoranti sono al sicuro, per via dell'aumento dei costi del biodiesel. Almeno verranno riciclati...

A parte le considerazioni alla Mad Max (prepariamoci alla china scivolosa del picco del petrolio, questo sarà il nostro futuro prossimo), il tutto mi ricorda molto il PIL. Tutto questo sta aumentando, oltre naturalmente il PIL, le vendite di prodotti petroliferi, dato che lo stesso gasolio viene venduto due e forse pure tre volte. Potremmo definirla una fonte di "liquidi non convenzionali", da aggiungere alla produzione mondiale. Ma la quantità totale di petrolio utilizzato, tra quello sparso in terra e quello usato dai ladri stessi, diminuisce. Come la "ricchezza" prodotta realmente.

lunedì, luglio 28, 2008

Siate Realisti; chiedete il nucleare

In quanto a titoli stupidi, vale la regola aurea "non c'è limite al peggio" (immagine da "passivissimo")



Da una nota di Leonardo Libero:

Ma i titolisti, li leggono gli articoli che devono titolare?

Su La Stampa del 30 Giugno 2008, sotto il titolo "SIATE REALISTI, CHIEDETE IL NUCLEARE", c'è un lungo articolo di Tony Blair che trovate riprodotto più in basso e nel quale i soli accenni al nucleare sono:

"Un’espansione dell’utilizzo dell’energia rinnovabile e, almeno in alcuni Paesi, del nucleare, è essenziale per chiudere questa voragine."

e

"Esiste una grande distanza tra il nostro bisogno di energia nucleare e la nostra capacità di ottenerla, considerando che l’industria nucleare negli ultimi anni è stata ridimensionata notevolmente."


Ma non si vergognano ?


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Siate realisti, chiedete il nucleare
La Stampa, 30 Giugno 2008

TONY BLAIR

Negli ultimi anni c’è stato un enorme progresso nell’opinione pubblica sul cambiamento climatico. Scienziati e leader politici sono ora unanimi nel riconoscere il pericolo ed esigere un’azione. Ma esiste il rischio di una divisione sempre più profonda sulle dimensioni e i tempi dei tagli alle emissioni di gas serra che chiediamo.

Gli scienziati dicono che i Paesi industrializzati devono operare entro il 2020 un taglio tra il 25 e il 40 per cento, essenziale per ridurre l’aumento delle temperature e il pericolo di un cambiamento climatico catastrofico e irreversibile. Ma con le emissioni di biossido di carbonio globali che crescono dell’uno per cento l’anno, i leader politici ora cominciano a chiedersi come possano ottenere riduzioni drastiche senza danneggiare il benessere delle nazioni.

Sir Nicholas Stern, autore di una ricerca sull’economia dei cambiamenti climatici uscita nel 2006, può anche aver dimostrato che il costo del rinvio dei provvedimenti da prendere rischia di essere molto più alto di quello di iniziative immediate.

Ma politici che pensino solo in lungo termine, ignorando le preoccupazioni del momento della gente, potrebbero scoprire che il loro mandato è troppo breve e venire rimpiazzati da politici che non condividono la loro visione.

La sfida quindi diventa quella di trovare un accordo su un’azione a livello nazionale e internazionale per giungere a economie a basse emissioni, che però permetta alla gente - anche nelle zone più povere del mondo - di godere dei benefici materiali e sociali della crescita e del consumo. Questo obiettivo richiede una visione sufficientemente radicale del fine che dobbiamo raggiungere, ma anche realistica rispetto alla consapevolezza del punto in cui ci troviamo adesso e sulla velocità del nostro cammino. Considerando la complessità delle materie trattate, è il problema più difficile che la comunità internazionale si sia trovata ad affrontare in più di mezzo secolo. Ma è vitale, considerando il prezzo del potenziale fallimento, raggiungere un accordo alla conferenza dell’Onu che si terrà a Copenaghen l’anno prossimo.

Non sottovaluto le immense difficoltà politiche ed economiche. Esiste un consenso sul fatto che le emissioni di gas serra devono essere tagliate di più del 50% entro il 2050, per poter tenere l’aumento delle temperature sotto i due gradi centigradi. Ma raggiungere questo obiettivo implica un cambiamento senza precedenti delle nostre economie. Può sembrare scoraggiante, ma ci sono anche ragioni per sperare. Si stima che noi possediamo già le tecnologie per il 70% dei cambiamenti richiesti. Una maggiore efficienza energetica da sola produrrebbe un quarto dei tagli, oltre a ridurre le bollette. La deforestazione è responsabile per il 20% del problema emissioni. È chiaro che se facciamo scattare gli incentivi giusti il mercato reagirà, e la creatività umana si metterà all’opera per trovare domani risposte che oggi sembrano impossibili.

Ma dobbiamo anche accettare la realtà. Un’espansione dell’utilizzo dell’energia rinnovabile e, almeno in alcuni Paesi, del nucleare, è essenziale per chiudere questa voragine. Ma la maggior parte delle nuove centrali elettriche che saranno costruire negli Usa, in India e in Cina nei prossimi due decenni saranno a carbone, quindi anche lo sviluppo delle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio delle emissioni è assolutamente cruciale. Esiste una grande distanza tra il nostro bisogno di energia nucleare e la nostra capacità di ottenerla, considerando che l’industria nucleare negli ultimi anni è stata ridimensionata notevolmente.

Né possiamo permetterci di riproporre Kyoto. Dobbiamo coinvolgere tutti i Paesi. Il mondo sviluppato, che produce l’80% dei gas serra di origine umana nella nostra atmosfera, deve guidare il processo delle riduzioni. Ma se gli Usa raggiungessero gli obiettivi più ambiziosi delle riduzioni e la Cina proseguisse nella strada che segue oggi, le emissioni resterebbero comunque sopra il livello che rende molto più probabili cambiamenti climatici potenzialmente catastrofici.

La sfida è grande e i tempi sono stretti. Senza una chiara direzione politica c’è il rischio reale che il summit dell’Onu di Copenaghen nel dicembre 2009 porterà a un accordo sul denominatore comune più basso, con ogni Paese impegnato a dare meno che può. Eppure è possibile immaginarsi una cornice nella quale elaborare l’accordo ambizioso e fattibile di cui abbiamo bisogno. E qui ci vengono in aiuto l’alto prezzo del petrolio e le preoccupazioni sulla capacità dell’offerta di soddisfare la futura domanda. Sia la sicurezza energetica sia il cambiamento climatico ci impongono la trasformazione delle nostre economie che devono ridurre drasticamente la dipendenza dai combustibili che producono biossido di carbonio. Tutto questo dovrebbe rendere possibile un accordo quasi universale sull’obiettivo del dimezzamento delle emissioni per il 2050.

Non si tratta di cercare un accordo che copra ogni evenienza: nei prossimi anni la nostra conoscenza e la velocità delle innovazioni tecnologiche cambieranno drasticamente. Abbiamo bisogno di un documento che sia il massimo ottenibile politicamente nel 2009, ma avvii un processo che permetta all’accordo di essere poi facilmente adeguato ai cambiamenti. Per questo è necessario che i maggiori Paesi industrializzati che parteciperanno al G8 a Hokkaido il mese prossimo - assieme al meeting del gruppo delle maggiori economie - aderiscano all’obiettivo del 2050 e agli elementi fondanti di quello che dovrebbe diventare un consenso globale. Dovrebbero anche trovare e finanziare le ricerche e le analisi necessarie a conquistare un vasto consenso a Copenaghen, e la prossima tappa potrebbe essere il G8 in Italia nel giugno 2009.

Se questi passi preparatori verranno fatti, la comunità internazionale arriverà a Copenaghen sapendo che esiste una direzione politica dettata dai Paesi che sono responsabili del 75% di tutte le emissioni. Sarà importante però precisare che nessuno si aspetta che il vertice di Copenaghen risolva tutti i problemi, ma che piuttosto metta in piedi un processo continuo suscettibile di aggiustamenti man mano che le circostanze cambieranno.

Ci sono ragioni per restare ottimisti. Paesi come Cina e India ora riconoscono che il cambiamento climatico è un problema di tutti, e non solo dei Paesi maggiormente responsabili per il riscaldamento. Anche negli Usa e in Giappone vediamo incoraggianti segni di cambiamento. In Europa, poi, c’è ormai un autentico e profondo consenso sulla necessità di agire.

La sfida non è più quella della volontà politica. Si tratta ora di arrivare a un accordo, radicale ma realistico, che tracci chiaramente la strada verso un futuro a basse emissioni. Possiamo farcela. Non possiamo permetterci di sprecare questa opportunità.

© 2008 The New York Times
(Distributed by The New York Times Syndicate)

venerdì, luglio 25, 2008

Evoluzione del Consumo Interno Lordo di energia elettrica in Italia - parte II

In un mio articolo precedente avevo fatto il raffronto tra i dati del consumo di energia elettrica in Italia nel 2006 e nel 2007 (questi ultimi, dati provvisori). Ora, a partire dai dati definitivi del 2007 pubblicati sul sito di Terna, è possibile confrontare i due grafici che rappresentano il Consumo Interno Lordo di energia elettrica in Italia negli anni 2006 e 2007. Per Consumo Interno Lordo, si intende la produzione nazionale lorda, cioè quella misurata ai morsetti dei generatori elettrici più il saldo tra importazioni ed esportazioni. I dati definitivi del 2007, messi a confronto con quelli dell’anno precedente, mostrano una dipendenza dal petrolio nella generazione termoelettrica sempre più marginale (6,3%), un ulteriore aumento del ricorso al gas naturale con una dipendenza che raggiunge quasi il 50%, un contributo stabile dei combustibili solidi (carbone) e del saldo tra import ed export (principalmente energia nucleare proveniente dalla Francia) e un calo di un punto percentuale del peso delle rinnovabili determinato dalla riduzione della produzione idroelettrica, solo parzialmente compensata da una crescita dell’eolico. Un'analisi del fenomeno del calo della produzione di energia idroelettrica è contenuta in un mio precedente articolo. Per quanto riguarda la crescita positiva della produzione eolica, c’è da rilevare che l’energia prodotta nel 2007 è stata di 4034,4 GWh con una potenza installata di 2,714 GW, mentre nel 2006 l’energia prodotta era stata di 2970,7 GWh con una potenza installata di 1,908 GW. C’è stata quindi una riduzione delle ore equivalenti da 1556 a 1486 che è un elemento negativo, perché considerando che esiste un limite superiore di potenza installabile, a causa dell’intermittenza della fonte in rapporto alla stabilità della rete di trasmissione, per ottimizzare la produzione eolica italiana sarebbe necessario massimizzare le ore equivalenti scegliendo i siti maggiormente ventosi.
Da notare che Terna conteggia impropriamente tra le rinnovabili anche la voce rifiuti, in quanto una quota della produzione di energia elettrica dai rifiuti, quella derivante dalla combustione delle plastiche, andrebbe scorporata. Il dato però, non modificherebbe sostanzialmente la ripartizione dei consumi descritta nei due grafici.
Complessivamente, il Consumo Interno Lordo italiano di energia elettrica aumenta pochissimo, da 359,1 TWh a 360,2 TWh (+ 0,30%), a dimostrazione di una sostanziale saturazione dei consumi elettrici finali (+ 0,4%), dovuta in parte alla stagnazione economica.
L’obiettivo strategico a medio termine non può che essere quello di eliminare del tutto la dipendenza dalla residua quota di petrolio, principalmente attraverso una maggiore penetrazione delle rinnovabili (principalmente eolico). A tal fine è necessario, a mio parere, rivedere il meccanismo dei certificati verdi, penalizzando le installazioni nei siti meno ventosi.

martedì, luglio 22, 2008

Blog in pausa per qualche giorno



Cari amici,

il blog ASPO-Italia si prende qualche giorno di pausa. Franco Galvagno è in ferie, io sono in partenza per Mosca. Da laggiù può darsi che vi possa mandare qualche impressione ma, visto che in vacanza siamo probabilmente in tanti, forse è meglio mettere il blog in pausa per qualche giorno. Saluti a tutti e ci risentiamo fra una settimana; più o meno.

Ah.... forse vi domandate cosa vado a fare a Mosca? Beh, vi rispondo in stile "il laureato" con una sola parola: silicio.

lunedì, luglio 21, 2008

Non posso pensare a un mondo diverso dall'attuale


Le compagnie aree si preparano per i cambiamenti in corso.



Tempo fa, Luca Mercalli mi ha raccontato di un dibattito che aveva avuto con non so più quale assessore a proposito del proposto aeroporto di Ampugnano, vicino a Siena. All'assessore che sosteneva la necessità di "sviluppo" e quindi dell'aeroporto, Mercalli aveva fatto notare che il mondo stava cambiando rapidamente e che la crisi dei combustibili fossili avrebbe reso inutili anche gli aeroporti esistenti, figuriamoci farne di nuovi. Al che, dopo vari ragionamenti, l'assessore aveva sbottato con una frase emblematica "non posso pensare a un mondo diverso dall'attuale". (Ne ho già parlato in questo post).

E' curioso questo rifiuto assoluto di pensare. Soprattutto, è curioso che questo rifiuto di immaginare il cambiamento non ci arriva da un sacerdote sumero di Inanna di cinquemila anni fa, che - possiamo immaginare - aveva buoni motivi per pensare che il mondo non sarebbe cambiato molto durante la sua vita. Ma, anche i sumeri hanno finito per sparire, pur rimanendo più o meno gli stessi per migliaia di anni. Oggi, poi, il mondo cambia a una rapidità tale che ne siamo continuamente spiazzati. Eppure, i nostri assessori, politici, "esperti", decisori, eccetera, continuano ad agire come se tutto quello che succede oggi debba per forza continuare a succedere per sempre, anzi, di più. Non possono pensare a un mondo diverso dall'attuale

Proviamo invece a pensarci. Pensiamo a un po' di quelle cose che tutti diamo per scontate. Lo saranno ancora nel prossimo futuro?


- I nostri risparmi sono al sicuro nelle banche.

- E' bene investire negli immobili dato che i prezzi aumentano sempre.


- I centri commerciali sono pieni di gente che compra.


- Non si può fare a meno dell'automobile

- Gli immigrati vengono in Italia attratti dalla nostra ricchezza.

- Si producono sempre più rifiuti e percio' dobbiamo costruire nuovi inceneritori

- Nelle nostre città, il problema principale è il traffico eccessivo


- La vita media continua ad aumentare grazie ai progressi della scienza medica


- Il nostro problema alimentare è il sovrappeso


- I nostri diritti sono garantiti da un governo democraticamente eletto

sabato, luglio 19, 2008

Se sei un leone, non dare la caccia ai conigli



Vi ricordate di quella frase sui leoni e le gazzelle che è andata tanto di moda qualche anno fa? Quella che dice "Ogni mattina, in Africa, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più veloce della gazella, altrimenti morirà di fame. Ogni mattina, in Africa, una gazella si sveglia e sa che dovrà correre più veloce del leone. Non importa che tu sia leone o gazzella, comincia a correre!"

Questa micro-storia è attribuita a Herb Caen che l'ha pubblicata qualche anno fa sul "San Francisco Examiner." Ha il fascino delle cose allo stesso tempo solenni e saccenti. Sembra che porti una profonda filosofia anche se, se la analizzi appena un po', ti accorgi che è una fesseria: Leoni e Gazzelle, in Africa, non corrono a caso dall'alba al tramonto. Invitarci a "cominciare a correre" senza ragionarci sopra prima è proprio una pessima filosofia che, peraltro, si situa bene in un mondo dove si ritiene sempre e comunque una cosa buona la corsa alla crescità economica. Aldo Giovanni e Giacomo hanno preso in giro esattamente questo concetto in un loro sketch, così come fa questo altro sketch.

Allora, possiamo ripensare un po' alla storiella e renderla compatibile con i principi dell'ecologia? Si, lo possiamo fare. L'ecologia è basata su principi fisici e, in particolare, sul fatto che le creature viventi devono fare i conti con il principio della conservazione dell'energia. Se un leone usa più energia per correre dietro alla gazzella di quanta non ne ricavi dalla gazzella come cibo, allora correre dietro alla gazzella non è una buona idea. Detto in un altro modo, i leoni non danno la caccia ai conigli. Non ne ricaverebbero abbastanza energia anche se riuscissero ad acchiapparli.

Questo principio di base dell'ecologia si estende anche all'economia umana in una visione detta "bioeconomia". La base della bioeconomia è la stessa di quella dell'ecologia: non ha senso impegnarsi in azioni che non rendono indietro l'energia necessaria per compierle. In altre parole, siamo predatori di pozzi di petrolio proprio come i leoni sono predatori di gazzelle. Però, trovare e scavare un pozzo di petrolio costa energia. Se ci vuole più energia di quanta se ne possa poi ricavare dal petrolio stesso, l'impresa è del tutto inutile e controproducente.

Cos', se qualcuno ci racconta "non c'è problema di carenza di petrolio dato che lo possiamo estrarre dalle sabbie bituminose" ci invita a fare la stessa fesseria che sarebbe per i leoni di dire che non c'è problema se non ci sono più gazzelle, tanto c'è abbondanza di conigli.

venerdì, luglio 18, 2008

Al Gore: il futuro è tutto rinnovabile

Non mi ricordo più chi ha detto che in ogni categoria di persone, nessuna esclusa, ovvero dagli idraulici ai premi nobel, il 99% sono degli incapaci. Nel caso dei politici, la generale incapacità a fare qualsiasi cosa di utile e di serio è di solito evidentissima. Ma, anche fra i politici, esiste quell'1% di persone in grado di vedere quali sono i problemi e di proporre delle soluzioni. Negli Stati Uniti, questo 1% è rappresentato da Al Gore.

Nel suo discorso fatto a Washington ieri, Gore le ha dette tutte giuste. Ha capito tutto e ha preso esattamente la posizione che ASPO-Italia ha da anni, inclusi i veicoli elettrici come mezzo di storage dell'energia rinnovabile (!!). Il futuro è tutto rinnovabile.

Gore ha proposto di generare il 100% dell'energia elettrica da rinnovabili entro il 2020 degli Stati Uniti.

Sembra impossibile? Certo, lo sembra per persone che non vedono oltre 10 centimetri dal proprio naso. Ma non è impossibile ed è la sola speranza che abbiamo di liberarci da una situazione che ci sta distruggendo piano piano. E' incredibile la distanza che c'è fra la visione di Al Gore e quella di tutti i politici di basso livello che non trovano altra via che rifugiarsi nel passato, trivellare di più o ritornare al nucleare.

Fatto oggi, il discorso di Al Gore ha la possibilità di influenzare tutta la campagna elettorale. Da quello che si legge, sembrerebbe che Gore e Obama si siano messi daccordo per lanciare questa idea che, dopo aver visto le reazioni del pubblico, Obama potrebbe adottare come la base del suo programma politico.

C'è ancora una speranza per il mondo. I prossimi mesi saranno cruciali per tutti.

Ecco alcuni dei punti fatti da Al Gore, selezionati da Tyler Hamilton. Un rapporto più esteso sta sul New York Times. Potete leggere su "The Oil Drum" un commento approfondito di Jerome Guillet.

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On economic, environmental and national security concerns

"When we look at all three of these seemingly intractable challenges at the same time, we can see the common thread running through them, deeply ironic in its simplicity: our dangerous over-reliance on carbon-based fuels is at the core of all three of these challenges... We’re borrowing money from China to buy oil from the Persian Gulf to burn it in ways that destroy the planet. Every bit of that’s got to change... if we grab hold of that common thread and pull it hard, all of these complex problems begin to unravel and we will find that we're holding the answer to all of them right in our hand. The answer is to end our reliance on carbon-based fuels."

On cost trends for fossil fuels, renewables

Those those who say the costs (of renewables) are still too high: I ask them to consider whether the costs of oil and coal will ever stop increasing if we keep relying on quickly depleting energy sources to feed a rapidly growing demand all around the world. When demand for oil and coal increases, their price goes up. When demand for solar cells increases, the price often comes down. When we send money to foreign countries to buy nearly 70 percent of the oil we use every day, they build new skyscrapers and we lose jobs. When we spend that money building solar arrays and windmills, we build competitive industries and gain jobs here at home."

On importance of grid modernization

"To be sure, reaching the goal of 100 percent renewable and truly clean electricity within 10 years will require us to overcome many obstacles. At present, for example, we do not have a unified national grid that is sufficiently advanced to link the areas where the sun shines and the wind blows to the cities in the East and the West that need the electricity. Our national electric grid is critical infrastructure, as vital to the health and security of our economy as our highways and telecommunication networks. Today, our grids are antiquated, fragile, and vulnerable to cascading failure. Power outages and defects in the current grid system cost US businesses more than $120 billion dollars a year. It has to be upgraded anyway."

On the link between a smart grid and electric cars

"We could further increase the value and efficiency of a Unified National Grid by helping our struggling auto giants switch to the manufacture of plug-in electric cars. An electric vehicle fleet would sharply reduce the cost of driving a car, reduce pollution, and increase the flexibility of our electricity grid."

On the need for a price on carbon

"We could and should speed up this transition by insisting that the price of carbon-based energy include the costs of the environmental damage it causes. I have long supported a sharp reduction in payroll taxes with the difference made up in CO2 taxes. We should tax what we burn, not what we earn. This is the single most important policy change we can make."

On how the U.S. political system is f^%$#$ up

"It is only a truly dysfunctional system that would buy into the perverse logic that the short-term answer to high gasoline prices is drilling for more oil ten years from now. Am I the only one who finds it strange that our government so often adopts a so-called solution that has absolutely nothing to do with the problem it is supposed to address? When people rightly complain about higher gasoline prices, we propose to give more money to the oil companies and pretend that they’re going to bring gasoline prices down. It will do nothing of the sort, and everyone knows it. If we keep going back to the same policies that have never ever worked in the past and have served only to produce the highest gasoline prices in history alongside the greatest oil company profits in history, nobody should be surprised if we get the same result over and over again."

On the thirst for change

"I’ve begun to hear different voices in this country from people who are not only tired of baby steps and special interest politics, but are hungry for a new, different and bold approach."

Finally, on the virtue of being a leader

"It is a great error to say that the United States must wait for others to join us in this matter. In fact, we must move first, because that is the key to getting others to follow; and because moving first is in our own national interest."

giovedì, luglio 17, 2008

Fotovoltaico per la pace in Libano


Impianto fotovoltaico installato al monastero Mar Sarkis and Bakhoss sul monte Libano a 35 km da Beirut. L'impianto è parte del sistema di gestione di un veicolo elettrico nell'ambito del progetto RAMsES.


E' in pieno sviluppo il progetto RAMSES di un sistema agricolo a impatto zero. Il progetto è finanziato dalla Commissione Europea ed è coordinato da Toufic el Asmar, segretario di ASPO-Italia. Vedete nella foto i pannelli fotovoltaici già installati in Libano. Questi pannelli daranno energia a un veicolo agricolo in costruzione in Italia. Il veicolo dovrebbe essere pronto entro l'estate, appena possibile faremo vedere qualche foto.

Insomma, un bell'impianto innovativo in Libano, una cosa positiva in un paese che, purtroppo, ha tanti guai. Oltre a non avere fonti energetiche proprie (come noi) ha anche il guaio di essere diviso in fazioni armate pronte a combattersi fra di loro (da noi, per il momento no - perlomeno non ancora). Chissà che non sia possibile farli smettere se si trova il modo di dare energia per tutti. Fra l'altro, i pannelli costano meno dei missili che potrebbero distruggerli, per cui non avrebbe senso bombardarli. Chissà...........

mercoledì, luglio 16, 2008

Crisi delle compagnie aree


Siccome sono in partenza per Londra, oggi pomeriggio, ho pensato che vi poteva interessare vedere come è strutturato questo biglietto di Meridiana.

Notate la presenza di un "crisis surcharge" (sovrapprezzo per la crisi) di 6 euro. Cosa sarà mai?

Molto più comprensibile il "fuel surcharge" (sovrapprezzo per il carburante) che - notate - costa più del biglietto di andata. Potrebbe essere molto peggio se il petrolio aumenta ancora.

In sostanza, da l'impressione di una situazione di crisi; d'altra parte te lo dicono anche nero su bianco. Con i prezzi del petrolio a questo livello, quanto potranno ancora durare queste compagnie a basso costo? Mah? Ho un po' il dubbio che la prossima volta, a Londra, ci dovrò andare in treno.

martedì, luglio 15, 2008

Bar del Popolo

Il bar è uno degli elementi caratteristici e specifici dell’identità italiana. Questo locale, disseminato a decine di migliaia sul territorio urbano, è diventato un pezzo importante del costume nazionale e dell’immaginario collettivo. Rete di produzione e distribuzione diffusa della principale bevanda nazionale, il caffè, ma anche luogo di svago e socializzazione. Ritrovo maschile per eccellenza, i ragazzi ci giocavano al bigliardino e al flipper, ora ai videogiochi, gli adulti al biliardo, i vecchi a carte. Nei bar ci si riuniva una volta per seguire le trasmissioni nazional-popolari, ora per guardare le partite della squadra locale o della nazionale. I bar sono da sempre anche produttori di sogni ed emozioni, nascosti tra le colonne della mitica schedina o dietro il gesto frenetico del gratta e vinci contemporaneo. Ma il bar è soprattutto il luogo sia della conversazione rilassata e generalista che della disputa accesa su argomenti sportivi, politici, sociali della quotidianità, dove il linguaggio della superficialità e del luogo comune viene sublimato in un colossale processo di formazione dell’identità collettiva e di socializzazione popolare. Questo sistema di comunicazione sociale è entrato ufficialmente anche nel vocabolario nazionale con la ormai comune definizione di “chiacchiere da bar”.
Seguiamo ora una delle innumerevoli “chiacchiere da bar” che si svolgono in questi giorni. Chiameremo i protagonisti immaginari di questo dialogo uno Silvio e l’altro Giulio.

S: Ciao Giulio, come stai.
G: Male, con questo caldo, venire al bar a piedi è un’autentica sofferenza.
S: Perché, hai l’auto dal meccanico?
G: No, ma il prezzo della benzina è diventato così caro che preferisco usarla il meno possibile. Sai, con le pensioni che ci danno!
S: Hai ragione, bisognerebbe che il governo facesse qualcosa per risolvere questo problema. Non è possibile che lascino fare ad arabi, petrolieri e speculatori tutto quello che gli pare. Innanzitutto, se fossi il presidente del consiglio, insieme agli altri capi di governo, direi a lor signori che è finita la pacchia e che oltre un certo prezzo non possono andare.
G: Bravo, Silvio, tu ne sai sempre una più del diavolo. Però, io combatterei anche la speculazione di tutti quei furbastri che si stanno arricchendo alle nostre spalle. Credi a me, gli speculatori sono la peste della società, andrebbero scovati uno per uno e messi al rogo. E poi, a questi beduini che fanno la bella vita galleggiando su mari di petrolio, gli andrebbe data una bella lezione. Io lo scioglierei, come si chiama, l’Opel.
S: No, Giulio, quella è la mia macchina. Opec, si chiama l’accolita dei produttori di petrolio.
G: Ah, sì, Opec. Li chiuderei tutti questi club che fanno fortune sulla povera gente.
S: Giulio, i nostri governanti pensano solo a se stessi e ad arricchirsi, cosa vuoi che gli importi della povera gente! Fanno tanti discorsi ma non concludono nulla. Cosa ci vuole a costruire una quarantina di centrali nucleari e a dare un calcio in culo agli arabi e al petrolio?
G: E a mettere una bella tassa sui petrolieri, così Moratti la smette di pagare a peso d’oro quei giovanotti tutti muscoli e niente cervello. E forse il nostro Milan rivince lo scudetto, eh, eh, eh.

Ebbene, sembra che Berlusconi e Tremonti abbiano preso davvero sul serio le chiacchiere da bar dei tanti Silvio e Giulio del nostro paese. Ieri, al vertice di Parigi, dopo aver ascoltato “O sole mio”, il Presidente del Consiglio ha dichiarato che “ è necessario che i paesi consumatori si incontrino al più presto per trovare un accordo sul prezzo massimo e ragionevole del petrolio che non può essere superato: in alternativa serve un massiccio programma di costruzione di centrali nucleari …. Siamo tutti in balia della speculazione.” E il Ministro dell’Economia Robin Hood Tremonti, dopo aver annunciato la tassa sui petrolieri, ha proposto agli altri paesi europei di combattere la speculazione finanziaria sulle materie prime, vera peste del secolo e ha illustrato al vertice Ecofin la sua strategia per proteggere il mercato e i cittadini europei contro i cartelli e le intese collusive oltre che contro la speculazione finanziaria che alimenta il caro-petrolio. Per il numero uno di Via Nazionale “l’Opec è un cartello tra imprese e non tra Stati e per questo può essere perseguito in Europa applicando il comma due dell’articolo 81 del Trattato di Roma che vieta alle imprese di prendere decisioni per limitare o controllare la produzione”.

E fu così che, grazie Berlusconi e Tremonti il governo del paese si trasformò in un grande, luccicante meta-bar, il Bar del Popolo, delle Libertà naturalmente.

domenica, luglio 13, 2008

Manager a confronto



In un commento al recente post "Non si può mangiare la torta e averla ancora", Michele ci ha segnalato il seguente link a un'intervista a Franco Bernabè, pubblicata sul Forbes nel 1998.

Al tempo Bernabè era l'AD di ENI. Può essere interessante tradurre almeno parzialmente le sue esternazioni del tempo, e confrontarle con quelle dell'odierno management della stessa azienda, secondo cui "il prezzo del petrolio è inspiegabilmente alto, torneremo a 50 $/bar ", "il mercato è adeguatamente rifornito", "ci sarà petrolio abbondante per 150 anni" [non metto i link, ma i 3 asserti di 3 diversi top manager sono facilmente ritrovabili].

La conclusione che può scaturire dal raffronto è che ci sono molte idee, e ben confuse. L'unico modo per venirne a capo è di applicare quella che in matematica viene chiamata antitrasformata, che è l'equivalente umanistico della rimozione dei filtri concettuali. Si cominci ad esempio a tener presente che le esternazioni hanno un'influenza diretta sulla carriera di chi le fa.


Il petrolio a buon mercato: godiamocelo finchè dura (da Forbes, 1998)

"Non quest'anno, non il prossimo, ma forse nell'arco di 5, il prezzo del petrolio comincerà a crescere", dice Franco Bernabè, AD della compagnia petrolifera italiana ENI SpA. Entro il 2010, crede, il mondo sarà vulnerabile a uno shock petrolifero stile quello degli anni '70.

Parlando a Forbes, a Londra, i primi giorni di maggio, dice "C'è un eccessivo compiacimento tra politici e economisti nel ritenere che il problema della scarsità di petrolio sia lontano. Ma nonostante i bassi prezzi di oggi, nel lungo termine ritorneremo a uno scenario di prezzi alti nel settore petrolifero".
Suona inappropriato, in un periodo in cui i prezzi del petrolio hanno mostrato minimi inferiori a 15 $/bar.

[ ... ]

A che punto è la tecnologia? Tecniche come la perforazione orizzontale non hanno forse aumentato fortemente la resa nell'estrazione dai pozzi petroliferi? "Certo", cice Bernabè, "ma non ci sono grandi margini di recupero in più con questa tecnologia"

[...]

La quantità di nuove scoperte di giacimenti è caduta da un picco di 41 miliardi di barili/anno nel 1962 ai 5-6 miliardi di oggi.

[...]

I soli nuovi giacimenti di una certa consistenza si trovano in Nuova Guinea, Congo, Angola, Gabon e Nigeria. Anche il North Slope field in Alaska contiene meno petrolio di quanto ci si aspettava.

"Negli USA si spende il 15% in più rispetto a 5 anni fa per le prospezioni petrolifere, ma senza osservare un significativo aumento nelle riserve", dice.

[...]

"La mia previsione è che tra il 2000 e il 2005 il mondo raggiungerò il picco della produzione petrolifera dalle nostre riserve conosciute, e poi l'output declinerà. Ma la domanda continuerà a crescere, lentamente e inesorabilmente.
[...]

venerdì, luglio 11, 2008

La Metropoli Umana


Vale la pena di dare un'occhiata al libro di Paolo Fuligni e Paolo Rognini "La Metropoli Umana (Franco Angeli, 2007) per l'impostazione innovativa che ha verso i problemi dell'ambiente e delle risorse.

Continuamente, ci sentiamo dire, e diciamo noi stessi, che abbiamo problemi di energia, di risorse e di ambiente. In un certo senso, è vero. Ma in un altro senso, i problemi sono quelli che noi stessi ci creiamo. Se ci sembra che il petrolio sia scarso, questo dipende dal fatto che siamo abituati a consumarne (oggi) 88 milioni di barili al giorno. Lo stesso vale per le altre risorse in difficoltà e per le immissioni di gas serra nell'atmosfera. Per tanti tipi di risorse, non avremmo nessun problema di scarsità se ci limitassimo a consumarle entro i limiti della capacità che hanno di rinnovarsi. Persino per il petrolio e gli altri fossili, che non si rinnovano, i problemi di esaurimento si allontanerebbero enormemente se ci limitassimo appena un po' nei consumi.

Allora, il problema non è nel nostro pianeta, che contiene ancora risorse abbondanti se solo sapessimo sfruttarle. Il problema è nella nostra testa che non riesce a capirlo.

Su questo punto si sviluppa il libro di Fuligni e Rognini che si distingue per l'approccio centrato sulla relazione fra uomo e ambiente. Gli autori esaminano gli stessi problemi di risorse che esaminiamo, fra le altre sedi, in questo blog, ma cercano di approfondire le ragioni per le quali ci comportiamo nel modo in cui ci comportiamo. Il risultato è una carrellata di grande interesse fra la psicologia umana, i media, la cultura e la percezione di quello che ci circonda.

E' proprio quello il punto fondamentale. Se non riusciamo a cambiare l'atteggiamento della gente riguardo ai problemi che fronteggiamo, non ce la faremo mai a risolverli. Questa è una cosa che si sta facendo strada in chi si occupa di queste cose, per esempio Nate Hagens che, su "The Oil Drum" sta cercando di inquadrare i problemi dal punto di vista della psicologia evoluzionistica. Certo, capire perché la gente non riesce a evitare di distruggere l'ambiente non basta a evitare che succeda. Perlomeno, però, è un primo passo.

mercoledì, luglio 09, 2008

Petrolio: Picco dei prezzi o delle quantità?


created by Giancarlo Fiorito



L’aumento del prezzo del petrolio, iniziato a fine 2003, ed accentuatosi nel 2007, ha ormai dei ritmi esponenziali. Con una buona semplicità esplicativa, se il 42% di aumento dall’inizio 2008, si ripetesse per i prossimi 6 mesi, si arriverebbe giusto a 200$/barile a fine anno. Gli analisti dibattono le cause: la forte domanda, i limiti di capacità estrattiva e di raffinazione, l’incertezza in Medio Oriente, le nazionalizzazioni, la speculazione, il dollaro debole ecc. La realtà del fenomeno è certamente molto complessa e le analisi si attestano su posizioni differenti ma, in estrema sintesi, per spiegare l’attuale prezzo del petrolio, si fronteggiano due visioni contrapposte.





Graf. 1 – Produzione, domanda e prezzo del greggio (tipo “Brent”) [Fonte: EIA]

La prima posizione per spiegare i recenti aumenti del prezzo del petrolio ritiene si tratti di un picco dei prezzi ed utilizza logiche economico-finanziarie per spiegare i prezzi-record dell’oro nero. “Il petrolio è più che sufficiente”, affermano gli ottimisti, che arrivano ad imputare il fenomeno del caro-greggio ad un demone dell'irrazionalità regnante sui mercati.
La risposta è economica: la mano invisibile porterà investimenti e nuovi pozzi, l’offerta crescerà senza problemi, riportando il greggio a prezzi “accettabili”. Secondo questa visione, i principali fattori esplicativi dell’aumento dei prezzi, sono :
la capacità produttiva inutilizzata - o spare capacity - dei giacimenti: rappresenta il cuscino di sicurezza capace di far fronte a picchi improvvisi della domanda o a interruzioni inattese dell’offerta: quando è molto bassa, il mercato petrolifero è in tensione. La spare capacity, oggi non supera il 4% dei consumi mondiali;
la situazione geopolitica: con una “spare capacity” minima, ogni crisi (o segnale di) che coinvolga anche un solo paese produttore (come, ad esempio, un intervento statunitense in Iran o un attacco del Mend in Nigeria) crea panico sui mercati;
gli incidenti, il rischio attentati, gli uragani, etc. sono fattori che possono influenzare il mercato cartaceo del petrolio, composto sia da agenti che agiscono per coprirsi dal rischio di rialzi del prezzo, che da operatori pronti a scommettere sugli andamenti futuri per realizzare una speculazione a breve, utilizzando strumenti complessi di finanza derivata.

La prima scuola di pensiero ritiene dunque 145 dollari al barile un “picco del prezzo” e, stigmatizzando i mancati investimenti in esplorazione e sviluppo, cerca di trasmettere segnali positivi riguardo alla disponibilità futura dell’oro nero.
Le tensioni attuali partono da lontano e sarebbero attribuibili, alle modeste quotazioni del petrolio nel passato (sotto i 20 dollari al barile per un ventennio) che, scoraggiando gli investimenti necessari al mantenimento dell’offerta, hanno ridotto la spare capacity. Questa variabile-chiave, con le compagnie petrolifere attualmente impegnate nei più grandi investimenti degli ultimi 40 anni, è destinata ad aumentare, con centinaia di giacimenti in via di sviluppo e molte raffinerie in costruzione. In questo scenario, dunque, si dovrebbe assistere a breve ad una flessione delle quotazioni del greggio.

La seconda scuola ritiene, al contrario, si tratti di un picco delle quantità. I suoi adepti usano una metodologia di confronto tra nuove scoperte e produzione di petrolio, sviluppata dal geologo statunitense King Hubbert. Considerando le specificità della produzione petrolifera, Hubbert teorizzò la predicibilità del tempo che intercorre tra il picco di nuove scoperte e quello della massima produzione per un’area data e, nel 1956, calcolando che le scoperte di nuovi giacimenti negli Stati Uniti avevano raggiunto il picco nel 1930, predisse che la produzione statunitense di petrolio avrebbe raggiunto il massimo nel 1970. La previsione si rivelò esatta.
A livello mondiale si stima che le scoperte di nuovi giacimenti abbiano raggiunto il picco negli anni ’60. I 20 principali giacimenti sono stati scoperti tra il 1917 ed il 1979 e, dal 1984, la produzione totale di petrolio ha superato quella delle nuove riserve scoperte, con un differenziale crescente; nel 2006, con 31 miliardi di barili estratti, sono state superate le nuove scoperte di 9 miliardi di barili.
I teorici del “picco delle quantità” sottolineano come un rialzo del prezzo del petrolio sia stato per lungo tempo auspicabile perché avrebbe permesso di 1) incorporare le esternalità causate dai combustibili fossili, come i cambiamenti climatici e l’inquinamento; 2) realizzare una maggiore efficienza e parsimonia nell'uso di una risorsa preziosa e finita. E’ illusorio, affermano, sperare in un aumento della produzione per ridurre il prezzo; occorre, invece, adottare una riduzione della domanda, in modo particolare nel settore dei trasporti.

La risposta è politica. La diminuzione del petrolio disponibile, al pari dei cambiamenti climatici, deve immediatamente arrivare in cima alle agende dei governi dei paesi industrializzati, al fine di avviare una serie di misure strutturali volte a ridurre la dipendenza da petrolio. Si tratta di avviare un processo di transizione in grado di condurre a dei cambiamenti profondi negli stili di consumo e, più in generale, del modo di vivere.
Graf. 2 – La produzione di petrolio nel mondo secondo le due tesi [Fonte : Energy Watch Group 2007]

martedì, luglio 08, 2008

Il petrolio e il compagno Ivan


La vecchia Unione Sovietica aveva molti difetti come sistema politico, ma un pregio ce l'aveva di sicuro: era la sorgente di un grandissimo numero di barzellette. Quella prototipale era Brezhnev che, all'inaugurazione delle olimpiadi faceva il discorsi di inaugurazione leggendo gli anelli olimpici come "ooh, ooh, ooh...."


Certe volte, quando mi trovo a spiegare la situazione del petrolio, mi sembra di vivere in una vecchia barzelletta sovietica. Mi chiedono tutti, "ma quanto petrolio c'è ancora?" Al che io rispondo che a) c'è ancora tanto petrolio ma b) estrarlo costa sempre più caro e c) ne consegue che ne dovremo usare sempre di meno.

A me sembra una cosa ovvia ma, curiosamente, vedo che un gran numero di persone non riesce a capirla. La maggioranza capisce solo la frase a) ("c'è ancora petrolio") dopo di che spegne, letteralmente, il canale di comunicazione delle orecchie con il cervello e conclude che non c'è nessun problema e che il petrolio sarà abbondante per sempre o quasi. Questo rende felici la maggior parte dei miei interlocutori, a parte un piccolo numero di catastrofisti duri che ci si arrabbiano perché vorrebbero la fine del petrolio per arrivare subito al loro mondo immaginario di felici allevatori di capre post-capitalisti.

Come dicevo, questa situazione un po' surreale mi fa venire in mente l'atmosfera delle vecchie barzellette sovietiche, per cui penso che potrei usare l'Unione Sovietica come un esempio per spiegare la situazione petrolifera.

Il sistema sovietico, come tutti i sistemi economici, si trovava a dover tener conto della scarsità delle merci. E' un problema che sta alla base dell'economia: come allocare merci che non sono sufficienti per tutti? Il sistema classico è basato sui prezzi, a loro volta determinati dal gioco della domanda e dell'offerta. Se una merce è scarsa, diventa cara e non tutti se la possono permettere.

Il sistema sovietico usava un metodo più macchinoso. I prezzi erano determinati dal governo e tenuti artificialmente bassi. La scarsità era fisica, nel senso che le merci erano raramente disponibili anche se costavano poco. In teoria anche gli operai potevano mangiare caviale, ma era difficile trovarlo nei negozi.

Questo mccanismo generava quell'aspetto tipicamente "sovietico" dei negozi russi, che a noi occidentali davano un'impressione di grande squallore: non c'era nulla in vetrina e nulla sugli scaffali. Appena compariva qualcosa, si formava una lunga coda di gente che faceva sparire rapidamente la merce appena arrivata. Ovviamente, c'era poi il mercato nero e i dirigenti del partito compravano in negozi dove la merce c'era sempre e non c'era bisogno di fare la coda ma, a parte questo, il sistema funzionava secondo il principio che "tutto costa poco, ma non ce nìè mai abbastanza".

Il tutto generava poi un'altra serie di barzellette dove, per esempio, il compagno Ivan si trova a visitare gli Stati Uniti e nel primo negozio che trova si compra 28 paia di scarpe. Oppure, il compagno Ivan ritorna dagli Stati Uniti e spiega che gli americani sono tutti poverissimi perchè i negozi sono pieni di merce che nessuno può permettersi di comprare.

Curiosamente, quando si parla di petrolio, qui in occidente, molta gente sembra ragionare come il compagno Ivan. Il petrolio, lo vedono come le scarpe nei negozi di Mosca. Se ci sono scarpe sugli scaffali, che problema c'è? Basterà fare un po' di coda.

Il problema, invece, è che il petrolio non è come le scarpe dei negozi di Mosca ma, semmai come quelle dei negozi di New York (o come è diventata oggi Mosca, anche più cara di New York). Le vetrine sono piene di scarpe a New York. Ma certe scarpe che si vendono a New York, non tutti si possono permettere di comprarle.

Allora, il problema è tutto qui: il petrolio non è finito ma sta diventando sempre più caro. Una cosa che non ti puoi permettere di comprare, è come se non ci fosse.

Per i cultori di barzellette sovietiche, segnalo una mia piccola raccolta delle stesse.

lunedì, luglio 07, 2008

La Chiesa Cattolica e la questione demografica



created by Armando Boccone


La Chiesa Cattolica è stata sempre favorevole all’incremento demografico. Periodicamente l’argomento compare sui mezzi di comunicazione di massa. Ultimamente alcuni esponenti della Chiesa Cattolica hanno detto che la Terra potrebbe sostenere trentasei miliardi di persone. Questa posizione è ben evidente su mezzi di comunicazione di massa appartenenti in vario modo alla Chiesa come per esempio Radio Maria. Ricordo una volta che Padre Livio (che è il Direttore nonché conduttore di vari programmi di Radio Maria) disse che in Africa non esiste il problema demografico, che le condizioni delle popolazioni di questo continente non dipendono dal numero dei suoi abitanti perché, per esempio, in Olanda il numero di abitanti per km quadrato è enormemente superiore e, nonostante questo, le condizioni di vita degli olandesi sono le migliori del mondo.

Come mai la Chiesa cattolica è favorevole all’incremento demografico?
Questa posizione della Chiesa, come ogni altro fenomeno sociale, è sicuramente determinata da più cause.

Il cristianesimo affonda le radici nel vecchio testamento, che esprime le vicissitudini delle tribù seminomadiche del popolo ebraico. Queste popolazioni, come tante altre, furono soggette a deportazioni. Succedeva che una popolazione in seguito a guerre vittoriose sottomettesse e deportasse quelle vinte. Ciò dipendeva dal fatto che la storia dell’antico Medio Oriente è stata una storia fatta di endemica penuria di risorse, di lavoro e di uomini. Le popolazioni sottomesse venivano usate per costruire canali, mura di fortificazioni delle città, templi, palazzi, per i lavori agricoli, per la produzione tessile e per altro ancora.

L’endemica penuria di uomini è stata una caratteristica precedente e successiva alle vicende delle popolazioni ebraiche, è durata parecchi millenni ed ha riguardato moltissime popolazioni in diverse parti del mondo.

Il Dio dell’antico testamento, che dovrebbe essere nato verso la fine del secondo millennio a.C., fece proprie queste esigenze diffuse e disse.... 26 .....:«Facciamo l'uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». 27 Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. 28 Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra». 29 Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento. 30 A ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo e a tutto ciò che si muove sulla terra e ha in sé un soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento». E così fu. 31 Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. Fu sera, poi fu mattina: sesto giorno. (Genesi)

Ma la posizione positiva della Chiesa Cattolica riguardante l’incremento demografico si basa non solamente su quanto dice il Dio dell’antico testamento. Per la verità quelle affermazioni divine sarebbero rimaste lettera morta, sarebbero finite nel dimenticatoio se non ci fossero state altre motivazioni.
Il successo di una religione come di ogni cultura si basa anche sul numero di persone che ne fanno parte. Qualche mese fa è stato data la notizia che i mussulmani hanno superato i cattolici, perché i mussulmani sono diventati 1 miliardo e 300 milioni mentre i cattolici sono solamente 1 miliardo e 100 milioni (il sorpasso quindi dovrebbe essere avvenuto parecchi anni fa ed inoltre nel confronto, chissà perché, sono stati considerati solamente i cattolici senza comprendere i cristiani delle altre confessioni).
Inoltre da qualche anno si parla sempre più di scontro di civiltà. Questo fenomeno ha molte motivazioni ma quello dell’esaurimento dei combustibili fossili dovrebbe essere la predominante: se i Paesi mussulmani produttori di petrolio non riuscissero ad approfittare di questa risorsa per diventare produttori delle proprie condizioni di vita, padroni del proprio destino, andranno incontro alla loro disgregazione culturale oltre che socio-economica e politica, così come è avvenuto per l’Africa nera.
Da qui le motivazioni al loro scontro di civiltà, alla loro volontà di separarsi dal Mondo Occidentale, per avere qualche possibilità di sopravvivere come Cultura e come entità politica sociale ed economica.
I paesi occidentali invece vorrebbero che le cose continuassero come prima, vorrebbero continuare a saccheggiare il mondo.
Da qui le motivazioni allo scontro di civiltà di cui parla il mondo occidentale.
In questo scontro di civiltà la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose cristiane giocano la loro parte. Fanno pur sempre parte del mondo sviluppato, di cui condividono le sorti.
La posizione favorevole della Chiesa cattolica nei confronti dell’incremento demografico è esemplarmente rappresentata dalla posizione di Giuliano Ferrara, che ha detto più volte che bisogna fare più figli altrimenti avremo solamente bambini mussulmani. Ferrara ha poi tratto alcune “conclusioni logiche” dichiarandosi contro l’aborto. Inoltre Ferrara è per la democrazia, che, secondo lui è una creazione del Mondo Occidentale, mentre i Paesi Mussulmani non lo sono. Così si prendono tre piccioni con una fava.

Bisogna dire per concludere che in molti paesi cattolici, come l’Italia, la Spagna, la Polonia e altri, l’indice di natalità (numero di bambini per donna) è intorno a 1,35, ben al di sotto del tasso di sostituzione demografico che è di 2,1 figli per donna. Sono valide quindi le critiche che vengono fatte alla Chiesa Cattolica nel non favorire l’adozione di metodi anticoncezionali in Africa?

Come si vede il fenomeno della posizione favorevole della Chiesa Cattolica sull’incremento demografico è un complesso intreccio di motivazioni e anche di posizioni contradditorie. Sicuramente mi sfuggono alcune altre motivazioni.

Chi o che cosa deciderà se l’incremento demografico sia una posizione valida o meno?
Sarà l’esaurimento dei combustibili fossili e gli sconvolgimenti derivanti dal venire meno di delicati equilibri ecologici. A farne le spese sarà tutto il mondo anche se il prezzo più alto lo pagheranno le popolazioni più povere come quelle africane, asiatiche e dell’America latina.

domenica, luglio 06, 2008

Il linguaggio del mondo

E tutti furono ripieni dello Spirito Santo, e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito dava loro d'esprimersi. (Atti degli Apostoli 2:1-4)




Ci sono delle cose che ti rimangono impresse nella mente anche per parecchi anni. Neanche te ricordi ma poi riemergono al momento in cui ti capita di fronte, improvvisamente, la risposta.

A me è capitato con una cosa che avevo visto in TV tanti anni fa. Era un documentario. Parlava di un antropologo che girava per l'Amazzonia. A un certo punto, faceva sentire un pezzo di Mozart agli indigeni. La loro reazione mi lasciò molto perplesso all'epoca e, suppongo, lasciò perplesso anche l'antropologo. Gli indigeni si misero a ridere.

Perché ridere della musica di Mozart? Era forse perché quegli indigeni erano "primitivi"? Oppure c'era qualche ragione che aveva a che fare con il vivere nella foresta amazzonica? Solo poco tempo fa, mi è arrivato il lampo di comprensione. Qualcuno mi raccontava che si tende oggi a vedere la musica come un "linguaggio" e che perciò è importante far sentire buona musica ai bambini fin da piccoli. Si sa che tutte le lingue, si possono imparare bene da piccoli, ma molto più difficilmente da grandi.

Ecco la lampadina che si accende improvvisamente come nei fumetti. Ecco perchè gli indigeni dell'Amazzonia si erano messi a ridere sentendo Mozart! Per loro, era una lingua straniera. Non potevano neanche capire che si trattava di musica; era semplicemente una cacofonia di suoni incomprensibili, esattamente come per noi lo è sentir parlare in una lingua che non comprendiamo per niente. Non riuscendo a capire cos'era, gli era parsa una cosa strana e buffa. E così si erano messi a ridere.

Non che noi siamo diversi dagli indigeni dell'Amazzonia. Per esempio, con tempo e buona volontà, noi occidentali possiamo capire e anche apprezzare musiche di tradizioni diverse, come la musica giapponese tradizionale, ma non sarà mai una cosa che ci capiterà di fischiettare per strada. Provate ad ascoltare la musica degli indiani del Nord America, non vi sembrerà neanche musica.

Ora, mettersi a ridere di fronte a dei suoni che ti sembrano incomprensibili è una reazione abbastanza tipica di fronte allo straniero. Anche i tanto civili greci dell'antichità, definivano gli stranieri come "barbari" dal suono "bar-bar" che gli sembrava fosse il rumore che facevano quando parlavano nella loro lingua. Era, indubbiamente, una presa di giro nei confronti dei non-greci.

Oggi, siamo abituati al fatto che il mondo parla e scrive in una grande varietà di lingue. Ma pensate a un vostro antenato anche soltanto di un secolo fa. Se non viveva in una grande città è probabile che non abbia mai incontrato qualcuno che parlava una lingua diversa dal dialetto Italiano locale. Prima del tempo della radio, è facile che non avesse mai neanche sentito il suono di una lingua diversa dall'Italiano.

Questo tipo di persone non sono rare ancora oggi. Se avete viaggiato all'estero in zone non proprio battute dai turisti, sarà capitato anche a voi di interagire con persone che non sono abituate ad avere a che fare con gli stranieri. Se avete avuto questa esperienza, potete confermare che, certe volte, il vostro interlocutore non riuscirà assolutamente a inquadrare la vostra presenza nell'ordine normale delle cose; un po' come gli indigeni dell'Amazzonia non riuscivano a inquadrare una sinfonia di Mozart nell'ordine normale delle cose che loro chiamano "musica". La reazione potrebbe essere di sorpresa, di fastidio, a volte anche aggressiva. Quella più tipica, e la più inaspettata per chi non l'ha sperimentata in pratica, è quella di essere preso per qualcuno non del tutto sano di mente. Le persone che hanno questa reazione non vanno prese per persone cattive o maleintenzionate, assolutamente no. Semplicemente, non sono abituate a trovarsi di fronte un adulto apparentemente normale che, però, non riesce a esprimersi come sarebbe normale per un adulto del luogo. Quindi lo considerano come un bambino o un "anormale". Può darsi, a questo punto, che non ti prendano sul serio, ti ignorino, oppure alzino la voce come si fa con qualcuno duro di comprendonio.

Ovviamente, sarebbe un errore clamoroso per lo straniero in questa situazione di reagire alzando la voce a sua volta. Viceversa, se questa reazione la conosci e la capisci, la puoi anche sfruttare. Si tratta di mantenere la calma, tenere un sorrisone a tutta bocca, insistere senza essere aggressivi. Se l'indigeno che hai davanti è una brava persona - come è quasi sempre il caso - prima o poi finirà per capire di cosa hai bisogno e farà del suo meglio per aiutarti. Se poi è una signora, alle volte si scatena l'istinto materno e questo è un grosso vantaggio. Mi ricordo ancora, diversi anni fa, una tizia di un albergo russo a cui avevo chiesto di poter usare il telefono che mi insultò (almeno credo, dal tono della voce) per buoni dieci minuti in russo salvo poi calmarsi, diventare gentilissima, e perdere una buona mezz'ora per aiutarmi a usare il telefono, nel frattempo insegnandomi i numeri in russo. Se penso a adin, dwa, tri, citiria.... mi ricordo ancora di lei.

Ora, questo fatto di non capire che qualcuno non è scemo ma parla un linguaggio diverso non è soltanto caratteristico del fato dei turisti occidentali un po' spaesati che hanno perso il bus dell'Alpitour. Una volta che avete imparato a riconoscere la reazione di cui vi ho parlato, la potete trovare un po' dappertutto nella vita quotidiana. In diverse situazioni, parliamo lingue diverse e alle volte ci troviamo a interagire credendo di parlare tutti la stessa lingua, ma non è così.

Guardate il dibattito sul riscaldamento globale, per esempio. Le due parti in causa non sono soltanto in disaccordo sui dati. Parlano due lingue diverse. Se qualcuno intitola un articolo sul giornale "smentiti i catastrofisti del clima", evidentemente parla un linguaggio diverso di chi invece passa il tempo a lavorare su modelli quantitativi dei cambiamenti climatici. Guardate la differenza

1 Linguaggio politico da Legnostorto

La Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici organizzata dal Governo italiano è stato un inutile spreco di risorse. Si è cercato di alimentare un catastrofismo che non ha fondamenti scientifici, spacciando come verità incontrovertibile che le modificazioni climatiche in atto - sempre che effettivamente siano riscontrabili e che dal loro effetto dipenda un effettivo peggioramento delle condizioni di vita sul pianeta - siano causate essenzialmente dalle attività antropiche, anzi, come ha detto Mussi, dal fatto che il capitalismo è “incompatibile con il pianeta terra”. Attraverso la paura, questo pseudo-ambientalismo di sinistra cerca di riproporre una antistorica battaglia culturale contro il nemico di sempre, appunto il capitalismo. Razionalità, innovazione, tecnologia (a partire dal nucleare) e libero mercato sono invece le risorse su cui su cui deve puntare un ambientalismo pragmatico, non inquinato dall’ideologia. Il centrodestra deve farsi carico di elaborare una piattaforma di stampo liberale per la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, da contrapporre al catastrofismo che punta a distrarre risorse dalle esigenze reali, ivi compreso, magari, l’adattamento preventivo a quei mutamenti climatici che rappresentano la fisiologia e non la patologia del pianeta.

2 Linguaggio scientifico da Nimbus

Lo studio della variabilità climatica in atto sul nostro pianeta, caratterizzata da fenomeni di riscaldamento globale e di modificazione del regime pluviometrico, viene affrontato alla mesoscala climatica dell'Italia settentrionale, al fine di individuarne possibili indicatori di correlazione con l'indice NAO. <..> Inoltre sono state scansionate, per due periodi pluridecennali (1873-1920 e 1984-2000), le carte isobariche bigiornaliere dell'area mediterranea e messo a punto il relativo programma di elaborazione per individuare un indice MOI (Mediterranean Oscillation Index) di correlazione con l'indice NAO. Le analisi statistica, stocastico deterministica e spettrale, delle serie termopluviometriche ultrasecolari, ha consentito di evidenziare che, alla mesoscala dell'Italia settentrionale, il riscaldamento globale si configura prevalentemente come aumento delle temperature minime, mentre la modificazione del regime pluviometrico risulta soprattutto individuabile come diminuzione del totale annuo delle precipitazioni associata ad un aumento dell'intensità delle piogge.

Vedete che sono due lingue completamente diverse come terminologia, impostazione, persino la sintassi. In effetti, quando quelli che le parlano si trovano a confrontarsi, si prendono reciprocamente per scemi e succedono dei guai non male.

Gli apostoli ricevevano dallo spirito santo il dono di parlare le lingue. C'è chi ha detto che era un attacco di una malattia chiamata "glossolalia" ma io credo che non fosse questa la spiegazione. Gli apostoli avevano il dono di parlare agli altri in una lingua che gli altri potevano capire - se vuoi parlare con un un altro la cosa migliore è cercare di parlare la sua lingua o, come minimo, non prenderlo per scemo se lui non parla la tua.

sabato, luglio 05, 2008

Berlinguer ti voglio bene

Molti si sorprenderanno, ma Enrico Berlinguer si può sicuramente annoverare tra i precursori del movimento ecologista italiano. Andiamo a rileggere alcuni passaggi dei suoi interventi al Teatro Eliseo di Roma (1977) e al Teatro Lirico di Milano (1979) che delineavano la cosiddetta politica dell’austerità:

“…Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell'occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano. L'austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l'austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è così per noi. Per noi l'austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell'individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L'austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata…”
“…L’austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. (...) La politica di austerità … può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura.”

Queste parole profetiche e straordinariamente attuali, nascevano da un clima culturale e scientifico caratterizzato e profondamente influenzato dalla prima crisi petrolifera degli anni ’70 e dall’uscita del celebre “The Limits to Growth”, di Donella e Dennis Meadows e Jorgen Randers, tradotto male in italiano “I limiti dello sviluppo” invece che “I limiti della crescita”, lo studio scientifico basato sulla “Dinamica dei sistemi”, commissionato dal Club di Roma presieduto da Aurelio Peccei. Lo studio (e le due versioni successive), attraverso gli scenari disegnati dal modello di calcolo per computer “World 3”, concludeva che se non fossero state intraprese azioni adeguate da parte dell’umanità per modificare il modello di sviluppo, sarebbero stati superati nei primi decenni dell’attuale secolo i limiti fisici del pianeta, determinando la crisi e il collasso del sistema. Non è questa la sede per entrare in un’analisi approfondita dei contenuti dello studio, che però chiunque si definisca ecologista dovrebbe aver già letto, ma è utile sintetizzare le tre azioni, ritenute tutte imprescindibili dagli autori, per invertire la tendenza al superamento e al collasso: 1) politiche demografiche basate sull’obiettivo due figli a coppia, 2) innovazione tecnologica orientata all’uso efficiente dell’energia, 3) fine della crescita economica illimitata e redistribuzione delle risorse tra paesi ricchi e poveri. Il nuovo modello di sviluppo conseguente a questa strategia fu definito dello “stato stazionario” per indicare efficacemente l’impossibilità di una crescita infinita su un pianeta finito.
Sappiamo cosa avvenne dopo la pubblicazione dello studio: fu messo al rogo, con motivazioni false e vere e proprie menzogne, da una massa di sedicenti esperti, in parte sembra assoldati dalle compagnie petrolifere mondiali, in parte economisti classici che non avevano neanche letto il libro ma vedevano confutate le basi della loro religione laica. La fine della prima crisi petrolifera fece il resto, e il mondo riprese la folle corsa della crescita infinita.
Anche il movimento ecologista ha subito un’evoluzione che ha seguito il dipanarsi di queste vicende. Da movimento fortemente critico nei confronti di un modello di sviluppo non sostenibile, ha gradatamente interiorizzato l’ineluttabilità dell’attuale modello economico, relegando l’ecologia in un ruolo di semplice contrasto agli effetti di tale modello, attraverso la promozione di tecnologie appropriate per migliorare l’efficienza dell’uso delle risorse. Obiettivo certamente necessario ma non sufficiente, come ci ricorda “I limiti dello sviluppo”, ma anche il Secondo principio della termodinamica, che stabilisce un limite alla crescita dell’efficienza energetica, oltre il quale la tecnologia diventa impotente di fronte agli effetti perversi di una continua crescita economica.
Attualmente stiamo vivendo una seconda ma ben più insidiosa crisi petrolifera perché la difficoltà nell’offerta di greggio che si era verificata anche negli anni ’70 dello scorso secolo, questa volta non può essere contrastata con nuovi investimenti e scoperte di nuova capacità estrattiva, in quanto sarebbe stato raggiunto il cosiddetto “Picco di Hubbert”, oltre il quale si determina un calo graduale e irreversibile della produzione della risorsa. In altre parole, la crescita esponenziale dei prezzi del petrolio innescatasi dalla fine del 2001, potrebbe non più arrestarsi, con le gravissime conseguenze che già stiamo cominciando ad avvertire in vari comparti economici. Anche altri segnali sembrano indicare l’approssimarsi di una crisi senza precedenti, l’aumento dei prezzi di molte altre materie prime (a partire dall’uranio), la crescita dell’erosione dei suoli, i cambiamenti climatici ecc.
E’ probabile che a questo punto sia troppo tardi per evitare la crisi preconizzata quasi quarant’anni fa, ma si può cercare di limitarne gli effetti devastanti, attraverso una profonda riorganizzazione della società verso modelli meno consumistici e dissipativi, affrontando una radicale riconversione di alcuni settori economici, in primis quello dei trasporti. E riabilitando sul piano politico Berlinguer e la sua lungimiranza.

giovedì, luglio 03, 2008

I barbari del clima


Questo post mi è stato ispirato dalla mostra sui cambiamenti climatici "I tempi stanno cambiando" che si teneva a Torino in concomitanza con il secondo convegno ASPO-Italia del Marzo scorso. All'ingresso della mostra, campeggiava un monitor con una registrazione di un intervento in TV di Giuliano Ferrara sul clima. La cosa mi è rimasta impressa, ed ecco il risultato.


Gli antichi Greci chiamavano "barbari" tutti quelli che non parlavano greco. Siccome non riuscivano a capirli, gli sembrava che non parlassero un vero linguaggio ma piuttosto emettessero dei suoni senza significato; qualcosa come "bar-bar", il nostro "bla-bla". Un errore ingenuo per un popolo tanto raffinato come riteniamo fossero i Greci antichi, ma tutto sommato comune ancora oggi. Quando ci si trova di fronte a qualcosa che non si capisce, si tende a pensare che non abbia senso; che sia solo un insieme di rumori; un bla-bla.

Qualcosa di simile succede alle volte quando si parla di clima: sostenitori e negatori del concetto di cambiamento climatico generato dall'attività dell'uomo a volte sembrano pensare che l'una e l'altra parte si esprime soltanto attraverso borborigmi senza significato; "bar-bar" appunto.

Un buon esempio di questa situazione ci viene da un articolo di Giuliano Ferrara del 2006 intitolato "Se l'ecologia diventa un birignao" (testo completo più sotto). Trovandosi di fronte a qualcosa che non capisce, la scienza del clima, reagisce come gli antichi Greci di fronte ai linguaggi degli stranieri. Pensa che non abbia senso; infatti usa il termine "birignao", onomatopeico proprio come "bar-bar". Giuliano Ferrara, purtroppo, non è il solo che, messo di fronte a cose che non capisce, reagisce credendo e dicendo che non hanno senso.

Una critica a Ferrara la troviamo nel libro di Stefano Caserini "A qualcuno piace caldo". Fra le altre cose, Caserini si chiede: "Com'è possibile che Ferrara domandi prove assolutamente certe sulla questione del riscaldamento globale, mentre invece si è bevuto senza batter ciglio la storia delle armi di distruzione di massa in Iraq?"

In effetti, il punto sta proprio li'. Ferrara può stare simpatico o antipatico, ma non è certamente un fesso. Sapeva benissimo che il dibattito sulle armi di distruzione di massa non era a proposito del fatto che esistessero o no. "Credere" alla loro esistenza, non implicava una prova scientifica ma, piuttosto, una scelta di campo. Se un numero sufficiente di persone si schieravano a favore della loro esistenza, in qualche modo "creavano" queste armi perlomeno per lo scopo a cui dovevano servire. Servivano soltanto per legittimare l'attacco all'Iraq. Esaurito il loro ruolo, sono svanite: non c'era bisogno che fossero armi vere.

Il problema con Ferrara (e con molti altri), è l'incapacità di capire che ci sono cose che non possono essere create e distrutte semplicemente dai sondaggi di opinione. Ferrara fa l'errore di credere che il problema del riscaldamento globale sia politico e che se riuscirà a convincere un gran numero di persone che non esiste, allora sparirà per incanto, proprio come sono svanite le armi di distruzione di massa di Saddam.

Detto in un altro modo, certi problemi non sono risolvibili con il dibattito politico, ma richiedono piuttosto il metodo scientifico. Di quest'ultimo, Ferrara è completamente e disperatamente ignorante. Lo si vede da questo suo sconclusionato scritto. Parla di cielo blu e di nuvole, di ghiacciai che vanno in su e giù, della mela di Newton, di Nostradamus e compara i modelli climatologici - che non capisce - a quello che a lui chiama "birignao".

A molti di noi sembra una cosa ovvia che certe cose vadano affrontate col metodo scientifico. Questo modo di ragionare sembra talmente ovvio che all'università non lo si insegna neanche in quanto tale. Chi fa una facoltà scientifica impara il metodo indirettamente, dagli esperimenti e dai corsi. Quando poi si parla di riscaldamento globale ci si trova a volte a dibattere con qualcuno che, letteralmente, parla un'altra lingua. Gente che percepisce i discorsi basati sul metodo scientifico come dei "bla-bla" (o dei birignao) senza significato.

Ora, quando barbari e greci si incontravano non si capivano, però possiamo essere sicuri che entrambi parlavano dei linguaggi equivalenti. Quello che si può esprimere in una lingua si esprime, quasi sempre, altrettanto bene in un'altra. Ma quando si tratta di affrontare un problema grave come il riscaldamento globale, non è affatto la stessa cosa abbordarlo in termini politici e in termini scientifici. Sono due linguaggi non equivalenti.

Pensate se non avessimo il metodo scientifico; se Galileo fosse passato di moda. Saremmo ciechi di fronte alle ragioni di quello che sta succedendo al clima. Vedremmo i ghiacciai che si sciolgono, la siccità che si diffonde, i deserti che avanzano, ma non sapremmo spiegare perché. Forse riusciremmo a misurare che la concentrazione di biossido di carbonio è aumentata a livelli mai riscontrati da centinaia di migliaia di anni. Ma non saremmo in grado di correlare questo aumento con i cambiamenti climatici - per questo non ci basterebbero i sillogismi aristotelici. Il cambiamento climatico ci piomberebbe addosso e non capiremmo perché. Non sapremmo nemmeno che cosa ci ha colpito, non potremmo neanche immaginare che è colpa nostra e che possiamo fare delle cose per evitarlo.

I Greci e i Romani, ai loro tempi, probabilmente hanno sogghignato un bel po' a insultare i loro vicini chiamandoli "barbarophonoi", ovvero quelli che parlano "bar-bar". Poi, però, si sa chi l'ha avuta vinta alla fine! Ignorare la scienza si può sempre fare, ma lo si fa a proprio rischio e pericolo. Purtroppo, sembra che questo sia proprio quello che molti dei nostri leader stanno facendo.




Ah.... noterete nel testo che segue la lode di Ferrara nei riguardi di "un modesto e serio professore di chimica di una università italiana che ridicolizza le energie alternative." Indovinate chi sarà mai... :-)
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SE L'ECOLOGIA DIVENTA UN BIRIGNAO
di Giuliano Ferrara
Panorama, 14.11.2006


Molti predicono apocalissi ambientali, invece cielo e mare rimarranno blu per secoli.

Se mi dicono in tv, in prime time, che fra quarant'anni è finito il pesce e l'oceano non scambierà ossigeno con l'atmosfera, penso che mi vogliono prendere per i fondelli.

Se mi dicono che il conto degli uragani dimostra gli effetti minacciosi del riscaldamento globale del pianeta, e che diventeremo in un tempo storicamente accertabile un immenso tropico alluvionato, mi sento preso in giro.

Se mi fanno vedere un ghiacciaio fotografato nell'Ottocento e poi l'altro giorno, per impressionarmi e convincermi che lo scioglimento dei ghiacci è tale da alzare il livello del mare fino all'assedio delle terre emerse e dei centri urbani, penso che mi vogliano far fare la figura del cretino.

Se poi aggiungono che tutto questo dipende dai tubi di scappamento delle Fiat Punto e dalle emissioni industriali, mi viene voglia di ridere e anche un po' di piangere.

Sarò anche un bastardo egoista di quelli che se ne impipano dell'ambiente, sarò anche un insensibile che si chiede che cosa i posteri abbiano fatto per noi e li disprezza, un arrogante troppo sicuro di sé, un presuntuoso che non capisce i dati della scienza, ma voglio qualche delucidazione in più.

E avanzo dei dubbi, che alla scienza e alla tecnica non hanno mai fatto del male.

Isaac Newton spiegò con una forza fisica il perché della mela che cade a terra dall'albero, ma se avesse detto che alla fine cadremo tutti a quattro zampe, e resteremo schiacciati e intrappolati nelle macerie di case in pietra incapaci di reggere la gravità, lo avrebbero giustamente preso per matto. Io dico che di pesce ce n'è ancora abbastanza per molte generazioni.

E desidero mi si dimostri il contrario non con dei controversi modelli lineari, cosiddetti, ma con prove fondate sul rapporto di causa ed effetto, prove aristoteliche, non di sociobiologia della Terra, un paradigma scientifico che nemmeno Nostradamus.

Io dico che il conto degli uragani, sulla scala temporale necessaria per definire un rapporto tra variazioni atmosferiche e apocalissi prossima ventura, è materia di memoria incerta, non c'è alcuna certezza riguardo ai secoli passati, dunque non c'è alcuna certezza riguardo ai secoli futuri.

Io dico che Giorgio Bocca stava in montagna, nel 1943, e notava i ghiacciai che «vanno su e giù», come ha scritto nel suo ultimo libro, e questo mi basta per distrarre scettico lo sguardo dalla fotografia del ghiacciaio calvo, privato della sua bella cresta bianca. Io dico che le turbine dei jet al cielo immenso gli fanno un baffo, basta guardarlo.

Dico che basta guardare la Terra per quanto è grande, l'atmosfera per quanto è estesa e gonfia e onnipresente, i mari senza industrie che sono due terzi del globo, e le terre emerse che sono popolate dall'industria per una percentuale minima, e poi farsi due conti mentali: ma davvero abbiamo rovinato il mondo, ma davvero abbiamo il potere di rovinarlo secondo gli schemi dell'ambientalismo fantasy?

Fior di eroi del contraddittorio, eroi di liberalismo, di controversia, di spirito critico, contestano l'ovvia ideologia utopista dei regressisti travestiti da progessisti.

Per un Nicolas Stern che vuole spendere 600 miliardi di dollari l'anno allo scopo di pianificare tutto, riconvertire tutto a una nuova dittatura delle regole fissate dai governi, imbrigliare l'economia, spegnere l'innovazione concentrandola nei settori che decidono le élite e non in quelli scovati dal mercato, ecco che un Björn Lomborg, con l'appoggio del Wall Street Journal, propone di affrontare i veri mali del mondo, dalla sete alla malnutrizione, con un assegno una tantum da 50 miliardi di dollari, un incentivo che indirizzi le risorse e la loro più equilibrata allocazione, non una super Regola che imprigioni la libertà dello sviluppo passando dall'economia all'utopia.

Per un tronfio Al Gore, che un giorno perde le elezioni, un altro apre un ristorante, un altro ancora si fa crescere la barba, un altro se la taglia, e infine raccoglie per hobby e politica fondi per il suo avventurismo avveniristico, e giustamente finisce con il girare un film ambientalista fintospielberghiano, che si rivela un flop tragico poiché alla fine gli uomini sono saggi, ecco il modesto e serio professore di chimica di una università italiana che ridicolizza le energie alternative e mette punti e virgola a un discorso liricizzante, tutto fondato sulla dittatura mediatica dell'immagine a danno della consecutio logica della parola scritta e dei benedetti numeri arabi.

Ma vi rendete conto?

Tutte le sere ci fanno vedere gli stessi fumi di scarico ripresi in modo sapiente e suggestivo, i ghiacci che in primavera si sciolgono come fossero una minaccia imminente, i pescherecci che resteranno a secco per via della pesca a strascico, gli uragani come fossero chissà quale novità, tutte le sere ma proprio tutte, e ci indicano l'urgenza di uno stato razionale assoluto, di un totalitarismo della precauzione, per toglierci la gioia e la libertà di vivere, per sostituire con una nuova premonizione utopica il bisogno di ideologia di un mondo senza religione e senza dei.

Ce l'abbiamo nell'anima l'apocalissi, ma il cielo è bello, puro e blu come gli oceani. Nei secoli dei secoli, fino a prova contraria. Prova, non birignao.